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Le rivolte inestirpabili

Sarajevo è una città che accoglie tra le sue date il 1900. Inizia lì con un colpo di pistola e un regicidio
la prima guerra mondiale. E lì si consuma negli anni Novanta il più lungo assedio del secolo. «Benvenuti nel carcere più grande d’Europa», così il poeta Izet Sarajlic´ salutava chi riusciva a intrufolarsi nella sua città circondata. Lui aveva scelto di restare, fare il detenuto insieme ai suoi concittadini. Di ore d’aria ne avevano poche e sotto tiro di sentinelle invisibili che sparavano da lontano su di loro, sui funerali e sui bambini. «Pazi snajper», attenzione cecchini, era un cartello
stradale a Sarajevo. È stato ragionevole per noi due, Danilo e io, incontrarci lì la prima volta, in Sarajevo, dopo la guerra. Sbandavamo per le sue vie guastate dalle granate esplose, tra le prime bancarelle del bazar riaperto. Sbandavamo anche da seduti nei primi bar che mettevano in strada un po’ di tavolini e sedie e servivano l’acquavite distillata in casa. Siamo disabili oggi, il nostro tempo è scaduto. Siamo del 1900, il secolo delle rivoluzioni, perché così cambiava il mondo in mezzo a migrazioni immense e guerre di sterminio. Abbiamo avuto la nostra parte nell’epoca in cui il mondo era esordiente e pronto a tutto, anche a scalare i giganti dell’Himalaya. Non ha più esordi il mondo, né giganti. Cerca invece di indovinare quale morbo, tra i tanti apparecchiati, lo decimerà. Aggiunge catastrofi nel pallottoliere, scommette su quale sarà la prossima estrazione. Noi due siamo disabili nell’epoca degli spaventati dagli spaventapasseri, i fantocci di paglia che raccomandano di tapparsi in casa e aizzano l’insicurezza privata. Siamo disabili senza coraggio pubblico in piazza e fraternità di zingari tra zingari.
Siamo disabili nell’epoca che spera nelle lotterie, non nelle lotte. Non abbiamo figli, cioè nessuna donna ne ha voluti da noi, questo ci dà un’aria stordita, di chi guarda per aria o in terra, poco innanzi. Non ci offriamo da interpreti del tempo. Invece raccontiamo, perché così abbiamo imparato da chi ha raccontato a noi. Danilo ha voluto incontrare, per suo proprio raccolto, i partigiani d’Europa, gli anziani capomastri delle lotte di liberazione.Ha riempito il suo album di figure sospette a ogni potere costituito. Ognuno di loro ha l’onore di una scheda in un archivio di polizia politica. Io mi sono avviato alle falde del Sinai, montagna inesistente, per raccogliere le impressioni dei fulminati sotto la lettura delle due tavolozze della legge. Mi sono trasferito in mezzo a quei primi sbalorditi, in assemblea sotto la roccia in fiamme. Ci viene facile risalire all’indietro nel tempo. Ma è per noi impossibile fare i membri anziani, candidati a quale che sia rappresentanza. Danilo e io in queste pagine siamo il più piccolo dei pronomi ‘noi’. Abbiamo conosciuto nel 1900 il suo formato maggiore, il noi non era un pronome personale, ma politico. Abbracciava l’appartenenza all’ultima generazione rivoluzionaria del 1900. Non usavamo il noi per la famiglia, la città, la nazione, ma per la comunità che in giro per il mondo rovesciava i rapporti di forza e di oppressione. Di questo ‘noi’ rimangono residui, un po’ di sale grigio in una pozza d’acqua marina evaporata. Messo su carta di quaderno, impresso sopra un fotogramma, il nostro rimasuglio è biancoenero.