Lungo viaggio dall’oscurità al mio amico al mio compagno
Carlos Montemayor
“Chi non saprà comprendere, morrà;
chi capirà vivrà…”
Libro dei Chilam Balam
O probabilmente ci troviamo dentro la pagina bianca del suo viaggio / là alza le braccia e ci chiama/ siamo parte di quella festa che non finisce / parte di quel lungo viaggio che / continua a cercare e accogliere ciascuno di noi. / Lo scorgo laggiù, lontano. / Alzo la mano per salutarlo. / Pur sapendo che viaggia fra di noi.
Finiva con queste parole il poema che Carlos Montemayor dedicava al nostro amico e compagno poeta, storico, scrittore e pittore Tito Maniacco, che ci ha lasciato a fine gennaio. Mentre era gravemente malato di un cancro alla stomaco, Carlos trovò l’energia per un saluto e un omaggio all’amico, con quella forza morale ed etica che appartiene solo ai giusti.
Nella primavera del 1996 mentre mi trovavo a Città del Messico lessi su La Jornada un lucidissimo e appassionato saggio sulla rivolta del Chiapas e la questione indigena in generale, firmato Carlos Montemayor. Cercai immediatamente il suo numero telefonico che trovai facilmente nell’elenco e lo chiamai.
Montemayor mi invitò subito a casa sua. Mi accolse con la semplicità e l’ospitaltà con cui gli uomini accolgono gli uomini.
Ero appena rientrato da un viaggio nella Sierra Madre Orientale, nello Stato del Guerrero. Ero stato nel villaggio di El Paraiso e qualche giorno dopo avevo incontrato la madre di Lucio Cabañas, l’indimenticato maestro-guerrigliero ucciso nel 1974.
Quasi un anno prima nel mese di giugno mi trovavo sempre in Guerrero, a Atoyac de Alvarez, ospite del Padre-ribelle Maximo Gomez, e per pura casualità quel 25 giugno del ‘95 non andai incontro ai campesinos dell’Organizzazione Contadina della Sierra del Sud verso il guado di Aguas Blancas (un gruppo di poliziotti stava attendendo i convogli che li trasportava e al loro passaggio aprì il fuoco. Alla fine si contarono 17 corpi di contadini rimasti senza vita) per poi rientrare con loro alla manifestazione fissata proprio ad Atoyac.
Carlos fu molto colpito da questa storia e dal mio interesse per la gente del Messico più povero. Mi invitò a restare per pranzo. Mi offrì subito come aperitivo un whisky, mentre con aria birichina e sorniona diceva “…non si può mica mangiare a stomaco vuoto”. Durante il pranzo parlammo e parlammo e quando seppe che da pochi giorni avevo scattato alcune foto alla madre di Lucio Cabañas “…assolutamente una copia per me” esclamò.
Più tardi, a pranzo finito, si mise al pianoforte a suonare ‘O surdato ‘nnammurato. Fu sorprendente e piacevolmente spaesante trovarsi nel cuore di Città del Messico e ascoltare l’inatteso. E poi la voce di Carlos: un vero talento musicale.
Raramente ho incontrato un uomo, un grande intellettuale, scrittore, linguista, poeta, più umile di Carlos Montemayor. Umile nel senso etimologico della parola che proviene dal latino humus, terra. E come la terra generoso. Perché Carlos è stato e rimane nel nostro comune viaggio uno degli uomini in cui la generosità d’animo, l’altruismo, la disponibilità e l’attenzione verso il prossimo sono state premura quotidiana. E anche solo questo non sarebbe poco in tempi di narcisismo consumistico, egoismo sfrenato e disinteresse verso il prossimo, di megalomanie da spettacolo da quattro soldi, di cultura da supermercato. Di mancanza completa, se non addirittura di derisione, di una ‘pietas’ nei confronti dell’esistere.
Ma Carlos Montemayor è stato e rimarrà - pur sapendo che viaggia tra di noi - anche un combattente tenace, deciso, senza alcun timore nell’affrontare e denunciare le malefatte dei potenti. E non senza tenerezza quando serviva: cantava, ballava, si meravigliava di fronte alle piccole cose, fraternizzava subito e ti avvolgeva con la sua voce da baritono/tenore e col suo gigante abbraccio. Diceva, Carlos, che il corpo ha necessità di cantare e ascoltare musica almeno 20 minuti al giorno, per ristabilire un’armonia perduta. Era ben consapevole che la poesia, l’epos, la lirica e la dignità sono pericolosi per il potere perché contengono in sé la gratuità. Quel “principio di reciprocità” che non si può comperare a nessun prezzo.
Forse pochi sanno, almeno al di fuori del Messico - se ricordo bene doveva essere il ‘98 o l’inizio del ‘99 - che Montemayor fu sequestrato, a scopo d’estorsione, da una banda di delinquenti. Al momento del suo rilascio, dopo aver pagato una somma che naturalmente non aveva e che gli fu almeno in parte - mi disse - anticipata da testate giornalistiche per cui scriveva, non accettò mai che si speculasse politicamente su questo avvenimento. Cosa che gli avrebbe certamente portato, come in questi nostri disgraziati tempi di veline si usa dire, molta più “visibilità”, con tutti i vantaggi economici annessi. Per Carlos rapimento da riscatto era e per questo doveva essere dimenticato. In Carlos l’avidità era una condizione inesistente. Quando lo invitammo più volte in Italia mai fece una questione di denaro. Se non aveva impegni speciali diceva di sì e arrivava.
Il giorno in cui mi parlò di questa sua disavventura fu solamente tre anni fa a casa sua. Era un mercoledì, e come tutti i mercoledì stavamo aspettando per pranzare assieme al grande maestro di Carlos, il poeta Alí Chumacero. E il vecchio Alí, oggi 93 enne, con la sua faccia mezza indigena sorrise ascoltando Carlos che raccontava la sua disavventura. Era il sorriso appagato dello sciamano, del curatore, dello owirúames della comunità di Raràmuris, meglio conosciuti come Tarahumara, che capiva di avere seminato e raccolto.
Da giovanissimo, studente all’Università di Chihuahua, entrò in contatto con i quadri politici del frente campesino, cosa che gli servì per capire la terribile situazione sociale in cui vivevano i contadini. Molti amici della sua età allora radicalizzarono la lotta e impugnarono le armi. Costituirono il primo movimento guerrigliero in Messico dopo la rivoluzione cubana.
Il padre di Montemayor per sottrarlo a quelle scelte radicali - era il 1964 e i suoi compagni erano intanto entrati in clandestinità - lo obbligò ad abbandonare Chihuahua e a continuare gli studi nel DF, la capitale.
Un anno dopo, un mattino, apprese attraverso i giornali la morte di tutti i suoi compagni che avevano preso d’assalto la caserma di Ciudad Madera, nella Sierra di Chihuahua. Mi ricordo benissimo quando raccontava: “Mi scosse profondamente riconoscere nelle foto i cadaveri dei miei compagni, ma soprattutto rabbrividii nel constatare il tono con cui l’informazione ufficiale parlava di loro: li trattarono da delinquenti, da pistoleros, da ladri di mucche, da banditi. Io invece sapevo della loro onestà, della loro generosità, della loro integrità. Compresi allora quanto una versione ufficiale poteva distruggere brutalmente la verità della vita umana. L’impressione fu tale che mi segnò per sempre”. Quarant’ anni dopo Carlos scrisse la loro storia in Las armas del alba: “…era un debito personale che sentivo di avere”.
Da allora l’impegno di Carlos fu incessantemente, tenacemente - assieme all’essere studioso della tradizione orale e della letteratura scritta nelle varie lingue indigene e delle genesi dei movimenti guerriglieri - rivolto a contrastare tutte le ingiustizie, le truffe, i soprusi e le mal-versioni ufficiali che coprivano le malefatte di qualsiasi potere, per dare dignità e verità alla vita nel suo insieme.
Carlos Montemayor fu amico intimo anche del Friuli. Di quel Friuli fortemente minoritario, sotterraneo, clandestino come gli piaceva dire, che ancora esiste ed è pronto più a dare che a ricevere. Più a opporsi che a obbedire.
Ricordo il suo incontro all’Università di Udine nel 1999, assieme all’antropologo Gianpaolo Gri, dove Montemayor tenne un incisivo, poetico e combattivo incontro sulla cultura e sul tempo ciclico indigeno: “La storia - disse - non è qualcosa di già passato, ma qualcosa che sta accadendo… il tempo non trascorre ma è simultaneo nelle sue possibili e invisibili dimensioni. La Terra per gli indigeni non è qualcosa di inerte, ma un essere vivo, e l’uomo, o meglio i popoli indigeni sono al servizio del mondo. La terra, gli animali, i fiumi, la pioggia, la semina e il raccolto …tutto è racchiuso nel processo agricolo. In alcune lingue indigene, come in quella Tarahumara, si dice che il mais immagazzinato dorme o si riposa. E il tempo è un tempo ciclico, è il tempo che sta ritornando, o meglio è un tempo che non se ne è mai andato. Per questo per gli indigeni Zapata vive… nel mondo invisibile contiguo al mondo che noi chiamiamo reale”.
È stato ospite indimenticato ai Colonos di Villacaccia dove più volte, anche con Erri De Luca, ha presentato i suoi libri. Sempre ai Colonos, in una serata memorabile, con Tito Maniacco che introduceva il libro delle sue poesie “In un altro tempo io ero qui” edito dal Menocchio, poi lette in italiano da Andrea Trangoni, mentre Roberto Micheli venne da Roma per allestire la sala con le sue pitture e sculture. Da Milano ci raggiunse anche Gianluigi Colin, Art-Director del Corriere della Sera, che Carlos divertito chiamava a ragion veduta “il nostro clandestino al giornale”. Per quell’occasione Pierluigi Cappello, premio Montale e premio Bagutta per la poesia, ha tradotto dallo spagnolo e letto magistralmente in friulano le poesie di Montemayor.
Poi ospite dell’Associazione Culturale “Il Caseificio” a Spilimbergo in occasione di “Messico l’ombelico della luna”. Al Circolo Pábitelé, assieme a Gigi Sullo, per parlarci della resistenza degli indigeni del Chiapas. Al Teatro San Giorgio con Giorgio Ferigo, altro amico e compagno che ci ha lasciato, a presentare il terzo numero di “Multiverso” edito da Forum.
La prima volta che venne in Friuli invitato da me e dal CeVI di Udine, fu nell’ottobre del ‘99, in occasione della mostra “Il sale della terra” che da lì a pochi giorni avremmo inaugurato assieme anche a Erri De Luca, nell’ex-chiesa romanica di San Francesco. Dopo il suo arrivo alla stazione ferroviaria ci incamminammo verso il centro città per andare a dare un’occhiata in anteprima alla mostra. Per arrivarci ci vollero tre bicchieri di Refosco dal peduncolo rosso e l’incontro con tanta gente con cui Carlos non ebbe certo difficoltà a comunicare. Posso dire che, in modo sorprendente, in tutti i paesi del mondo dove mi sono trovato con Carlos, lo ascoltavo parlare quella lingua per lui straniera quasi come fosse la sua.
Entrammo nel grandissimo e splendido spazio di San Francesco, di cui avevo le chiavi perché stavamo ancora terminando l’allestimento e dove sapevo, ancora dimenticato dall’ultima iniziativa, esserci un pianoforte.
Carlos non ci pensò un istante e si mise a suonare. Fu magia per me e per lui: in uno spazio come quello si liberarono… le note dell’Ave Maria di Schubert. La musica e la sua voce che viaggiavano potenti tra quelle mura di cotto e la copertura della chiesa a carena di nave ci avevano già fatto imbarcare per chissà quale avventura. Attorno, le fotografie dei popoli diseredati della terra che, fondendosi-con gli affreschi delle pareti, in quell’atmosfera grandeggiavano, e quelle donne povere con i bambini al seno diventavano l’immagine di Maria come nessun’altra. Capimmo che stava iniziando una grande fraterna amicizia.
È stato grazie al suo tenace impegno, alla sua perseveranza delicata, paziente ed equilibrata, senza mai dare l’impressione della prevaricazione verso le persone e le istituzioni messicane, e con l’aiuto dell’allora Assessorato alla Cultura della Regione Friuli-Venezia Giulia, che nel 2007 la grande mostra/installazione “Resistenze” ha potuto arrivare ed essere presentata, oltre che a Città del Messico, a Chihuahua, a San Miguel de Allende e nella stupenda sede del Museo Regionale di Guadalajara.
L’incontro poi con il partigiano Cid a Venzone, l’antica cittadina veneziana distrutta dal terremoto del 1976 e ricostruita pietra per pietra. Come dimenticare un tale avvenimento: due colossi di umanità, di una umanità sotterranea, lontana nel tempo, che si manifestava lì in quell’istante.
Al suo rientro in Messico, Montemayor scrisse, in quello stile che a lui saggista piaceva più definire come “le tentazioni arcaiche del narratore”, un testo che intitolò Il Cid delle Prealpi. “Un pomeriggio a Venzone mi chiese con voce lenta e grave, di riflessione, di confidenza, con lo stesso tono che aveva la voce di mio padre: - Chi sei? Perché sei venuto ora? Cerco di ricordare chi tu sia. Siamo uguali, siamo della stessa pasta - La sua forza interiore, la sua presenza familiare provocavano, in effetti, la particolare sensazione di averlo conosciuto da sempre, di averlo reincontrato… la memoria del Cid sui percorsi inaspettati dei sogni”.
“Così il grande cerchio che traccia la poesia lungo la storia degli uomini si aggira all’antico e al diverso e lo ri-forma, lo ri-crea come antichissima modernità” .
Mandi Carlos: un calice di refosco, un pugno di terra e un po’ di poesia per esserti fedeli e leali come tu lo sei stato con i tuoi compagni e continuare assieme quel viaggio così incerto che ci rende tutti uguali.