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Danilo De Marco - Alessandro Ivanov: un intruso a se stesso (2006)

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Alessandro Ivanov: un intruso a se stesso

Ho sempre avuto la sensazione che da queste parti Alessandro Ivanov fosse un “intruso”. Scodellato in Friuli quasi in fasce da una rivoluzione, quella bolscevica, che con ogni probabilità non ha mai amato, causa diretta della sua fuga dall’ex-Russia zarista, ex-Unione Sovietica, mutante in Russia-Neoliberal-Zarista, è sempre stato un corpo estraneo, in questa, per lui troppo piccola Patria.
Lo incontrai la prima volta assieme a mio padre, quando non arrivavo ancora al metroecinquanta, dentro una cabina teleferica che saliva verso il monte Lussari.
Come dimenticare quell’incontro!
Mi promise una pistola che sparava piccole frecce che permettevano di mettere sotto ipnosi e successivo controllo le persone a cui venivano dirette. Ricordo che una fragorosa risata seguì quel racconto-promessa, mai mantenuta naturalmente, mentre nel frattempo gli occhi si facevano piccini piccini e scomparivano dietro ad una fessura ovoidale e il segno della bocca allungava in tutte le direzioni, sgorbio di matita impazzito.
In seguito a quell’incontro, quando lo vedevo passare per le vie di Udine, come può fare un bambino catapultato al tempo di Pinocchio, lo seguivo con lo sguardo, imponendo la forma di una V in tensione a mio padre che mi teneva per mano, fino quando raggiungeva il primo angolo di strada che lo inghiottiva.
C’era una volta…
Un Re.
No.
C’era una volta…
Il professor Alessandro Ivanov…
Un bel giorno… quando raggiunsi il mio metroesettantasette che ancora resiste, lo rincontrai grazie all’impegno di un oste, dalla stazza, naso, baffi, voce e giocosità, degni delle migliori fiabe. Versò del vino, quell’oste, dallo stesso fiasco in due bicchieri che ‘casualmente’ erano affiancati sul banco. Rapidamente svuotati, troppo vicini l’un l’altro per non avvertirsi, i bicchieri, ma non solo, sostavano impazienti. Ne seguirono altri di bicchieri di vino tracannati quella sera: ma, brindando assieme. Il professore, anche se cercava giocosamente di ignorarmi, si ricordava benissimo di me. Ma non certo della pistola che mi aveva promesso una ventina d’anni prima.
Da allora incontri casuali si fecero più frequenti nella selva di “distributori a vino” appiccicaticci nelle corti di Udine, in cui il professore cercava, ostinato, la sua catarsi.
Impossibile era non accorgersi di quella solitudine troppo rumorosa, quando si piantava a pie’ fermo, per ore, in uno di quegli spacci. Accoccolato in un angolo del banco, attendeva, il professore, insidioso la sua preda. Quando però la preda, troppo ingenua per azzardarsi volontariamente in quei territori pericolosi, incrociava l’occhiata che il professore teneva sempre fissa sulla vittima, beh, era affar suo.
Il bocconcino, il professore, non se lo lasciava sfuggire.
Con un movimento che assomigliava a quello di uno sciamano che risveglia gli spiriti dall’aldilà, si avvicinava, accumulando tensione sulla testa come fa il cobra un istante prima di colpire. Movimento che gli serviva in verità, per trainare il corpo, strisciandolo sul bancone dell’osteria, punto d’appoggio inevitabile per non perdere l’equilibrio durante l’affondo fatale.
Lo sciamano iniziava così, con villania burattinesca, la cerimonia. La sua bocca, già avanzata forma di sgorbio, si sformava ulteriormente dirigendosi verso l’orecchio del malcapitato, mentre la tensione del volto continuava il suo lavoro di attrazione per scompigliare il predestinato di tale, sich, impensata fortuna. Gustosamente divertito, direi felice, il professore emetteva un sibilo e dava inizio all’ultimo atto. Lo sgorbio in tensione si riadagiava in fessura, ma solo per trasformarsi improvvisamente in una terrificante soglia, nera gola di un orco che scaricava tutte le contumelie più divertenti e inaspettate che si possano immaginare.
Una sera entrando al Vecchio Stallo, popolare trattoria di Udine, me lo vidi seduto, il professore, ad un tavolo in classica posa fine giornata, mentre stava per stramazzare la testa dentro al piatto che aveva davanti.
Lo salutai con vigore per scuoterlo. Si risvegliò evitando la caduta… Me ne fu sempre grato, ricordando quasi ad ogni nostro incontro quel mio intervento salvifico. Se la rideva alla grande di tutte queste disavventure.
Il professore vagheggiava di “fabbricarsi” un burattino meraviglioso… era quello il suo progetto magico, il grande regalo che avrebbe voluto fare alla BELLA DAMA d’azzurro non misurabile, slava lontana utopia, perduta nei samovar, che rincorreva nelle più nostrane osterie udinesi, e di cui fantasticava… Un luogo inconcluso, una costruzione che aveva del rudere. Quel rudere che sapeva essere la sua esistenza.
La BELLA DAMA era certo la compagna che non ha mai avuto. Speranza oscura, incantata della fantasia. Magia, sortilegio, con cui aveva però un appuntamento sicuro, nel momento estremo, quando le ombre perenni dell’Altrove si fossero affacciate. Ed il colore che dava alla sua vita, in attesa dell’incantesimo, serviva da percorso iniziatico di avvicinamento.
Salvarsi così dalla banalità, dall’opportunismo e dalla “stupidità” di cui diceva essere circondato. Era il colore anche di tutto quello che aveva lasciato in Russia. Colore della memoria involontaria che non gli dava pace; la superficie di quelle icone che rimarranno sempre il suo punto di partenza per cercare e andare oltre.
L’icona nascondeva qualcosa. Lo spazio vero non era quello “realistico” che sta tra l’immagine e l’osservatore. Non è neppure quello duro della vita di ogni giorno. Spazio reale è quello dell’illusione, che sta oltre l’opera materiale, che si trova al di là di quel piano: oltre l’icona. L’icona è solo la palpebra abbassata di quel mondo.
Se per molti l’inesistente, il fantastico, sono insieme elusivi e consolatori, per il professore diventavano i luoghi della creazione, più reali del reale, perché appunto l’illusione… si può incontrare solamente a palpebre abbassate.
Oltre che tenere le sue memorabili lezioni di letteratura russa all’Università, il professore disegnava, parlava, scriveva, beveva, a palpebre abbassate.
Da quel luogo, che per la grande maggioranza è il mondo della cecità, dell’impossibilità, del nulla, coglieva tra gli spasmi di bile nera e furore saturnino, il dono della creazione.
Le ombre perenni, fantasmi che ricordava aver incontrato quella prima volta, in fuga, sul ponte della nave, non lo abbandoneranno mai. Ossessioni che si trasformavano in burleschi, assatanati, escatologici testi e disegni. Come poter dimenticare quell’autoritratto che disegnò sulla copertina del suo “…sedendo e mirando”, mentre lo si vede sprofondato sul water intento a trafficare con lo sciacquone, per essere, lui stesso, evacuato? O lo Zoccolo Nero, o Cosacchi perduti….
All’Università fece la sua ultima uscita il giorno che gli donarono il libro del ben servito per i suoi 70 anni : ‘Studi slavistici’. E il professore fu magistrale. Entusiasmante.
Prese, con eleganza estrema, tutti per i fondelli, compreso se stesso. Nessuno pensò, o volle, registrare quell’addio.
E, a cose fatte, scendemmo a farci un bicchierino al bar Galanda.
Il professore mi diventò amico, e come si sa, sugli amici si può contare. Raggiungeva il mio anfratto di Chiavris, proprio sotto casa sua, sapendo di trovarmi al lavoro fino a notte profonda, dopo essere fuoriuscito, non senza intralci, dall’ultimo spaccio possibile. Dandomi puntualmente del Lei… con fioca voce grufolante, si slabbrava sulla minuta sedia che possedevo e, instabile ma sicuro di sè, dormiva. Contava naturalmente, da vero amico altruista, sulla mia necessaria veglia. Alessandro Ivanov, burlesco, insopportabile, impertinente: una delle figure più franche, ironiche, intelligenti che abbia calpestato le piaghe - pardon - plaghe del Friuli. Da queste parti lo evitavano volentieri, questo intruso. “Me ne frego” borbogliava. Ma sapeva di essere intruso anche a se stesso.

Nelle mie scorrerie friulane, quando nelle osterie sorprendo qualcuno che si guarda attorno sbalordito e impaurito …cercando e non trovando, abbasso le palpebre… Sardonico, il professore è lì che mi guarda sghignazzando, accoccolato sul bancone attendendo le preda di turno.
E la storia è ancora più divertente ora, che il professore c’è, ma non si vede.