Arrivando a Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo, nella trentina di chilometri che separano l’areoporto dal Boulevard 30 di giugno, unica arteria centrale della città, si è obbligati ad una immersione forzata nella Citè, l’immensa e inconfortabile megalopoli povera, brulicante formicaio di quasi sei milioni di abitanti.
La situazione è così degradata e il governo così corrotto che anche il poveraccio che qui riempie la buca della strada, ogni giorno la stessa buca, per ragranellare qualche spicciolo dagli automobilisti, viene regolarmente taglieggiato dalla polizia. La vita di strada a Kinshasa è dura.
Nonostante questo, si stima che più di 40.000 “ragazzi di strada” vivono allo sbando senza sapere cosa potranno mangiare durante la giornata, dove andranno a dormire, come se la caveranno nell’incerta e pericolosa notte.
Un “esercito di strada” questo, che non fa parte della realtà culturale del Congo ex-Zaire, e che si è inizialmente sviluppato tra gli anni ‘80 e ‘90, quando il regime di Mobutu Sese Seko, dopo trent’anni, cominciava a frantumarsi. Fatto sociale derivato soprattutto dalla perdita dei valori tradizionali del villaggio africano della famiglia estesa, incrementato da una situazione economica sempre più catastrofica, dalla guerra che ancora infuria nel nord-est, nonostante che il 17 dicembre le fazioni belligeranti abbiano firmato un accordo di pace a Pretoria.
Ndoki vuol dire in lingua Indala stregone. Nelle comunità del villaggio, lo stregone aiutava a dare un ordine nelle relazioni sociali, praticava la medicina tradizionale, non era portatore solo di credenze feticistiche.
Ora invece, nella realtà della città, scardinate le regole del villaggio, in una situazione economica che stagna nella più miserabile delle situazioni, quando una famiglia con decine di rampolli non riesce più a sfamarsi, diventa possibile accusare perfino il proprio figlio di praticare il Kindoky, la stregoneria. Ndoki è diventata la più offensiva delle ingiurie anche tra i ragazzi di strada.
Così molti ragazzi non sopportano di restare in una famiglia dove a stento sopravvivono. In queste condizioni, la strada diventa per loro il luogo della libertà, l’ambiente e il mezzo di socializzazione principale, che sostituisce la famiglia sia come integrazione che come protezione sociale.
La credenza nella stregoneria è diffusa in Africa. Ma a Kinshasa non si era mai parlato di bimbi-stregoni. E’ solo dagli anni ‘80 con l’arrivo delle sette religiose, e con il forzato esodo rurale dovuto all’emarginazione economica e alla guerra, che questo fenomeno si acutizza.
Queste sette hanno saputo leggere molto bene nella psicologia dell’africano che crede nella parola e non nei fatti. Una religione facile, esaltata, che si può comperare per un dollaro, accompagnata da miracoli dal vivo e canti di massa. I pastori di queste sette diventate una moltitudine, hanno così cominciato a promettere soluzioni miracolose e salvifiche. Se questo non avviene è facile gioco accusare uno dei numerosi figli, individuando possibilmente il più debole della covata, di essere il responsabile. Di praticare l’arte della stregoneria.
Ogni disgrazia famigliare, la morte di una persona, la perdita del lavoro, il raccolto che va male, hanno bisogno di trovare un colpevole. La morte, peggio se è di un giovane - l’africano non comprende la morte di un giovane - ha bisogno di spiegazioni. La causa così è sempre consegnata a qualcuno che ha esercitato il malocchio, ad un atto maligno subito. Persino un brutto sogno suscita sospetti.
L’anno passato diverse centinaia di ragazzini vennero cacciati dalle loro case a Mbuji-Mayi, una città mineraria, accusati di aver fatto arte del maleficio facendo così crollare i prezzi dei diamanti.
Il bambino viene accusato di aver compiuto ogni genere di atto. Perfino di aver mangiato, dopo averla uccisa, la propria vittima. La maggior parte dei ragazzi di strada provengono oggi da queste esperienze famigliari. Ma la situazione è degenerata talmente che anche nelle famiglie benestanti non è raro che si ripetano casi del genere.
Per i ragazzi e le ragazze la vita di strada è…la libertà, dopo l’esperienza traumatica della propria famiglia.
Lo spazio aperto della strada e la possibilità di fare quello che desiderano, diventa per loro insostituibile nel tempo. E’ solo seguendoli nei loro frenetici spostamenti, che ci si può avvicinare alla comprensione del loro stato di libertà: nonostante tutto. Nonostante la gerarchia che anche tra di loro si instaura e che sfiora la tirannia del più grande verso il più piccolo. Si diventa ragazzi di strada anche a quattro anni.
Ma la vita è dura e le caratteristiche comuni a tutti sono: l’insicurezza, l’omossessualità, lo sfruttamento, la prostituzione, l’abuso di droghe, il maltrattamento e l’inguria. La gran parte dei ragazzi di strada di Matete, uno dei più popolosi quartieri di Kinshasa, groviglio di facce dove vivono più di 200.000 persone, la notte dormono sui banchi dei mercati, nei parchi pubblici, alcuni si ritrovano nella fatiscente stazione ferroviaria di Matete che ancora ha un tetto di lamiera, dove si ammucchiano in decine per proteggersi e trovare un po’ di compagnia. Per tutti però la notte significa angoscia e incertezza. Durante il sonno passanti male intenzionati li prendono a calci, gli tirano sassi, perfino spengono le sigarette sui loro corpi. La polizia stessa usa fare violenza a questi ladruncoli.
Gli abusi e i maltrattamenti che vivono e subiscono i ragazzi e le ragazze di strada derivano proprio dal loro regime di vita che è centrato sulla violenza. I più grandi rubano spesso i soldi ai più piccoli e gli infliggono anche rapporti sessuali, omosessuali e punizioni per colpe commesse o per regolare i loro conti. Questi atti sono spesso commessi sotto l’effetto di droghe: tabacco, marjuana, alcool, solventi, droghe pesanti (eroina). Il valium, che trovano facilmente nei mercati a costi bassissimi, anche se ufficialmente ne è vietata la vendita ai minori.
Accanto al problema dei ragazzi di strada c’è quello dei bambini soldato. Fenomeno che si è sviluppato soprattutto nelle zone del nord-est del Congo, dove la guerra ha devastato territori, massacrato animali (più di 9000 gorilla sono stati uccisi con il rischio dell’estinzione) e terrorizzato la popolazione. La maggior parte dei bambini soldato non sa leggere. Strappati con la violenza dai loro banchi di scuola a 7- 8 anni, armati con kalashnikov alle volte più grandi di loro, sono passati ancora infanti attraverso tutte le esperienze: donne, droga, alcool. Essere militari in Congo, anche a 8 anni, vuol dire comandare, e il più delle volte il kalashnikov rappresenta l’unico modo per sfuggire alla povertà e alla marginalità, per sentirsi più potenti e poter agire liberamente verso il civile. Il diritto anche di uccidere. Nel ‘97, quando Kabila rovesciò Mobutu, a Kinshasa entrò ,dopo aver percorso più di 2000 chilometri a piedi, tutti in fila indiana come formiche, un lunghissimo esercito di bambini soldato.
Ora vi è un progetto di smobilitazione e reintegrazione di questi bambini ormai quasi 18enni. Rimane il grande problema di cosa fare di loro, viste le condizioni sociali ed economiche del Congo. E poi questi giovani non vogliono essere smobilitati mantenendo tutt’ora due identità: una con il nome che avevano da soldati, e l’altra civile. Insomma loro si sentono ancora soldati, forti, potenti, e superiori ai loro coetanei, “i ragazzi di strada”, che disprezzano.
Ragazzi di strada e bambini soldato. Esiste ancora una relazione tra questi ragazzi e la società: ancora non si sono formate bande organizzate, ma già i primi figli dei ragazzi di strada e quelli senza padre dei bambini soldato incominciano a crescere. Una bomba in attesa di esplodere in un prossimo futuro. Che cosa possiamo aspettarci da giovani che sono stati maltrattati dalla società, messi al bando, violentati, costretti giovanissimi ad uccidere il più delle volte senza una ragione se non quella, a loro ignota, di protteggere i privilegi dei signori della guerra? Il sistema politico dei signori della guerra riesce a canalizzare ancora a proprio vantaggio la rabbia giovanile della diseguaglianza sociale e nuove reclute vanno ad alimentare l’economia della guerra. Più di tre milioni di congolesi sono morti dal 1998 ad oggi. marzoAttorno alle ricchezze minerarie del Congo si continua a combattere la “Prima guerra mondiale africana”: oro, diamanti, tungsteno, ma soprattutto il coltan, dalla cui raffinazione si estrae il tantalio, elemento indispensabile per fabbricare i condensatori che si trovano in ogni computer, in ogni palmare, in ogni telefono cellulare, in ogni play-station. Senza il coltan il mondo tecnologico si fermerebbe subito.
Come scriveva il New York Times Magazine, “la storia del coltan sembra chiara: la globalizzazione stava causando la rovina di un paese disperato. Per la nostra passione per i gingilli elettronici, guerriglie si arricchivano, gorilla venivano massacrati, e gli indigeni venivano pagati una miseria per devastare l’ecosistema locale”.
Una gioventu disperata, quella congolese, come del resto della gran parte dell’Africa nera, che rischia di essere sepolta per sempre nel pantano dell’odio… “cuore di tenebra “che per ora è ancora in ascolto, ma prima che sia troppo tardi.