Parole

Danilo De Marco - Gibuti-L’esodo della popolazione etiope (2011)

Djibouti: quanti sanno dov’è? talmente piccolo che spunta a malapena dalla carta, nascosto dal nome. Un «confettino», dicono… di una manciata di chilometriquadrati di pace, circondato da giganti fratricidi: Etiopia, Eritrea, Somalia. Storie di guerre lunghe e sanguinose, mai risolte. Nate domabili…, diventate un groviglio di interessi internazionali e presenze militari. E tanta fame. Djibouti si toglie parzialmente dalla mischia, non per particolare merito ma per una situazione politico-economica tenuta in piedi dalla presenza straniera e dalle alleanze negoziate. Punta estrema del Corno d’Africa, all’imbocco del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, trampolino proiettato verso l’Asia, deserto geograficamente strategico per i colonizzatori della storia e per quelli moderni, gli eserciti che la abitano, che fanno funzionare politica ed economia e che la difendono dal pescecane.

Siamo al centro-nord del Paese, a tre/quattro ore di auto dalla capitale: incroci si e no 4 macchine su quella strada nuova e deserta che arriva fino al Nord, dove non va nessuno, verso la vecchia capitale Obock, un paesotto di venti case in rovina, e di capre in equilibrio sulle grosse spine delle acacie che si ingozzano di sacchetti di plastica. Sembra terremotato. Ma la strada prosegue ancora a nord per 20 chilometri e raggiunge le sinistra prigione di Gadobe. Poi il nulla. Fuori dal centro abitato di Obock che vende la sua memoria di Rimbaud, Henry de Monfreid e Corto Maltese, il paesaggio è bellissimo. Duro e selvaggio. Quella è la meta. Ma bisogna arrivare fin là, per prendere la ‘zattera’ che attraversa i 18 chilometri di mare fino allo Yemen.

Gli etiopi li incontri più a sud, dopo aver attraversato il lago Assal, il lago salato, paesaggio lunare, dove durante l’interminabile estate la temperatura può superare i 50. Qui, sotto un sole scalmanato, gli animali si nascondono in cerca di un’ombra improbabile e migrano, anche loro, per non essere cotti da quella natura affascinate e impietosa. Gli etiopi spuntano dalle rocce nere, su quella stessa strada che serpeggia, sale e scende tra la pietra lavica arroventata dal sole che rigurgita altro calore e il deserto di sabbia e sassi, dove resistono solo acacie, capre, dromedari e qualche scimmia nei mesi invernali. Anche le zanzare, in quel girone dantescono non resistono e scompaiono. Escono da uno dei tanti passaggi di confine con l’Etiopia a qualche centinaio di chilometri; si chiamano Dahiba Med, Abibaker Ahamed, Habiba Med, Ahame Idiri, Abdikader Ahamed, Johari Med… migrano a migliaia. Ma è’ umanità che non esiste. Non interessano a nessuno. Non contano per il governo etiopico, che si scrolla di dosso migliaia di bocche da sfamare; troppo impegnato a far costruire dighe che provocheranno un ulteriore esodo mortale di popolazioni autoctone, assieme ad un immane disastro ecologico nella Valle dell’Omo, a sud-est, per fornire di elettricità il Kenya, con intervento italiano privato e, sembra, in parte pubblico. Pare che ditte italiane abbiano già comperato appezzamenti giganti di territorio. Tutto condito da termini come modernità, progresso…e affari, naturalmente. Non disturbano il governo gibutino, che non interviene se non raramente o a scadenze interessate, sapendo che la maggior parte di loro è solo di passaggio e, paradosso della povertà, contribuisce suo malgrado ad alimentare una catena organizzata come un viaggio a pacchetto, tutto incluso. Un transumante è un episodio effimero, ma la sua presenza lascia la traccia del passaggio. Come una capra su un sentiero di montagna, la riconosci, la processione del profugo…semina odore di bisogno e di speranza e diventa al tempo stesso occasione di lucro e speculazione tra poveri.

Partono da ogni angolo d’Etiopia, senza nulla in tasca per evitare di essere derubati per strada. Una guerra tra poveri ha i suoi aspetti spietati. Camminano in piccoli, piccolissimi gruppi ma ripetuti e quotidiani. Un contenitore di plastica per l’acqua, uno straccio per copricapo, un paio di sandali di plastica che si rompono cammin facendo. Ombre erranti che cercano dove posarsi senza piangere e andando avanti, una pena impotente di fronte a tanta evidenza di temerarietà che non ha mezzi per ragionare o cercare alternative. A monte, la famiglia ha fatto colletta, ha venduto le capre o le mucche per investire nel giovane che parte per tutti e va a cercare fortuna. Quel gruzzolo servirà a pagare il passaggio, sarà portato al commerciante etiope collegato coi commercianti gibutini e yemeniti, scambiatori di carne umana durante il viaggio fino a destinazione. Complici non rari anche le polizie dei posti di blocco, che chiudono gli occhi e fanno finta di niente, la loro parte in tasca. Alla famiglia d’origine non resta che incoraggiare i figli ad andare perché restare vuol dire abbandono, economia di pura sussistenza, senza scampo . Vuol dire rassegnazione e fame. Le valigie di cartone legate con lo spago della nostra «meglio gioventù» che partiva in emigrazione, un lusso. Dall’altra parte nessun cugino li attende.

Scavalcano la frontiera gibutina a Dikhil, a Galafi, a Balho. Per centinaia e centinaia di chilometri a piedi, si avviano verso Tadjura, dove troveranno la rete ben organizzata dei passeurs che verifica, con una telefonata ai soci etiopi, chi ha versato la somma richiesta, che dà diritto anche a cibo ed acqua…durante i giorni di attesa, per non morire di fame, prima di proseguire ancora per un centinaio di chilometri verso Obock.

A Tadjoura gli etiopi sono intrusi riconoscibili e da sorvegliare, ma fanno comodo a tutti. Alcuni girovagano tra i vicoli come cani randagi, ondeggiando per fame ostentando magrezza. Altri si assopiscono sulla spiaggetta davanti al porto, tra qualche pesce maleodorante sfuggito alle reti, corvi, gatti, e un andirivieni di folla che compra e vende cianfrusaglie. Tutti sanno che sono clandestini, che sono un pacco da recapitare, ma nessuno interviene. E’ un modo di non interferire nell’economia locale, fortemente lucrativa. Si lavano i panni sporchi in casa, meglio non disturbare nessuno… e risolvere da soli la disoccupazione, il caro-vita, il proprio isolamento. In attesa dormono in 10 o 15 in pochi metri aspettando il momento buono per superare il posto di polizia in uscita, quando non è sovraffollato, perché troppe mani chiederebbero di pagare il silenzio del passaggio per Obock.

Da là si imbarcheranno di notte, accatastati in barconi/carrette intasati. La meta questa volta è lo Yemen. Se ci sono troppi controlli a riva, li mollano al largo: cento metri sono più che sufficienti per annegare… un nomade, un montanaro….che viene da un paese senza mare… Allo sbarco altri controlli di polizia e altre mazzette, e poi il nulla. Cercano qualche contatto, amici, vicini di casa, o soltanto altri anonimi compagni di sventura. A piedi attraversano lo Yemen verso la prima possibile meta: l’Arabia Saudita. Poi magari ancora verso Dubai e gli Emirati, dove il controllo di frontiera e in città è sempre più spietato. Poi chissà, per i più resistenti la Turchia e, forse, l’Europa.

L’Africa: un immenso continente in movimento. I suoi popoli, i suoi giovani, si stanno affacciando e ci stanno chiedendo un po’ di posto o, se non sapremo almeno redistribuire quanto abbiamo loro preso direttamente o indirettamente anche sostenendo per anni governi dittatoriali - e la sproporzione che oggi esiste tra noi e loro è gigantesca - ci presenteranno direttamente il conto. Nessun muro sarà troppo alto per impedire il loro arrivo. L’unica cosa certa, è che arriveranno.

Mentre i dépliants turistici raccomandano, assieme ad una nostra taciuta e acquisita indifferenza, un turist safari su una 4×4, con tanto di guida locale e riserve in acqua e cibo, attraverso un affascinante e unico paesaggio lunare: il lago Abbe, o il lago Assal, pubblicizzati come «Un altro sale».