Le Parteras: le eronine delle Ande
Il Cantone di Guamote, nella Regione deI Chimborazo, dal vulcano che porta lo stesso nome e la cui cima supera i 6000 metri, è tra le regioni dell’ Ecuador andino, una delle più povere e abbandonate.
Qui vivono gli indiani kichua, contadini, che coltivano sui ripidissimi terreni che raggiungono i 4500 metri, rave, patate e altri legumi della sopravvivenza.
L’indice di povertà tocca il 90% della popolazione, che da tempo subisce un processo di acculturazione e di emarginazione mentre i livelli di scolarizzazione sono bassissimi.
Il tasso di mortalità infantile è uno dei più alti deI Paese; tra i minori di cinque anni la mortalità è dell’85,7%, di cui il 44,6% nei primi sette giorni e il 16,1% tra l’ottavo e il ventottesimo giorno di vita. La maggior parte delle donne, solo un 10% ricorre aIl’ ospedale, partorisce in casa propria e un’ alta percentuale di esse non riceve alcun aiuto nel momento deI parto.
Per ragioni principalmente culturali, gli indiani rifiutano di utilizzare le unità di salute pubblica. Il rifiuto probabilmente è dato anche dal fatto che le strutture pubbliche non hanno saputo essere in armonia con le necessità della cultura indiana, e troppe volte hanno tentato di svilire le pratiche tradizionali kichua.
La crisi economica acutizzata poi con la dollarizzazione -in Ecuador la divisa ufficiale è il dollaro- moneta che crea ancora grossi problemi di valutazione e riconoscimento per questa popolazione delle cordigliere, ha reso ancora più drammatica la loro vita.
Tra questi smisurati paesaggi andini, in un duro scenario pastorale, non è raro vedere affrettarsi camminando o in sella ad un lama, una figura un tempo per noi leggendaria, in viaggi che durano anche una giornata, la partera, la nostra perduta levatrice. Sono loro, le parteras, che si occupano da sempre, delle donne che devono partorire e della pratica medica tradizionale più in generale.
La partera o comadrona, accompagna la donna durante l’atto deI parto che per gli indiani delle Ande non è solo funzione fisiologica, ma l’espressione della loro cultura e di tutti i fattori che la influenzano. Per la gente kichua la nascita è anche più importante della vita stessa, e la partera ha il compito di far si che la sua pratica deI togliere e accogliere il neonato sia in armonia con la loro cosmologia.
Per questo tutte le attenzioni che ricevono i neonati hanno una forte valenza simbolica. L’ autorità che ricade sulla partera in questo atto è importantissima e tutti i rituali che pratica sono fondamentali per riprodurre i ruoli sociali e i valori morali della comunità.
La medicina e il sapere indiano hanno come presupposto fondamentale
l’osservazione, l’equilibrio e il rispetto della natura. Loro stessi si considerano natura e non padroni e mercanti di essa, e la terra rappresenta spazio e tempo.
Le parteras hanno acquisito un profondo sapere sulle qualità e proprietà delle piante, dei minerali, o dei prodotti animali che usano, lascito delle culture orali, e che contengono in sé poteri solo se accompagnati e arrichiti da fatti soprannaturali e da procedimenti magici.
La contrapposizione caldo- freddo è il risultato di questa forza magica presente nell ‘universo, e durante qualsiasi trattamento, le parteras applicano la legge dei contrari per far ritrovare equilibrio e salute. Il loro sapere sulle piante medicinali è vastissimo, e risale a molto prima della conquista spagnola, tanto che la farmacopea europea se ne arricchì notevolmente in tutti i sensi, sfruttando le loro conoscenze ma lasciando queste popolazioni alla lora miseria.
Come poi si diventi levatrice -o meglio una wachachik mamakuna- in lingua kichua, rimane un segreto. Dipende da una chiamata che si puo manifestare in molti modi, ma che è chiara solo alla predestinata.
Le parteras dicono “impariamo guardando”.
E’ con Maria Ramona Vimos, partera, che mi incammino en la madrugada, la mattina quando la luce nasce, verso il Paramo, ultimo dei territori prima di raggiungere, oltre i 4500 metri, quella terra ribelle, cocciuta e fiera che non permette più aIl ‘uomo di ferirla.
E’ nel Paramo ribelle che le parteras cercano le loro erbe curative e ritrovano la loro sfera magica. E’ nel Paramo, l’ultimo dei confini prima deI mondo de los Dioses, che l’acqua decide di organizzarsi in bacini naturali e, scendendo verso gli altopiani, permette agli antichi popoli delle cordigliere di vivere.
Da queste parti, ma più sopra ancora, esce il fuoco dalle bocche spalancate della madre terra. Acqua e fuoco, freddo e caldo: ricomincia il movimento dell’universo, la natura che attraverso i suoi elementi cerca il tepore equilibratore per dare ancora una volta la vita.
Tutte le donne indigene, quando si mettono in cammino, filano la lana a mulinello. Ogni momento è buono, basta che le mani sostino in ozio per ‘fare’ qualcosa di necessario per la famiglia: una piccola cuffia per uno dei numerosi figli, un poncho per il marito, una bayeta-panno che serve alla donna per coprirsi. Tutte cose che non possono comperarsi, tanta è la povertà.
E Ramona non è da meno. Cammina e fila, fila e cammina. Antico rito che ci riporta al mito della fedeltà, mentre si affretta trascinandosi dietro due dei suoi figli; i più piccoli, per raggiungere la povera capanna dove sta per nascere una nuova creatura.
Camminando Ramona mi inizia ad una propedeutica indiana della nascita.
“Quando la donna partorisce -mi dice- le si allentano solamente la cintura le collane e i braccialetti perché abbia più forza, ma non le si tolgono gli abiti né tantomeno il sombrero, perché la forza necessaria potrebbe sfuggire dalla testa. La donna si mette in ginocchio e appoggia le braccia su un banco ad una altezza di 30 centimetri dal suolo con le gambe aperte. Se la placenta poi non dovesse cadere, le soluzioni sono varie, come mettere deI fango caldo sulla fronte della donna, o sollecitare in gola con una piuma di gallina.
La placenta viene poi seppellita sotto un grande albero che le faccia ombra”.
Nella credenza andina, la placenta continua ad essere parte della madre e influisce sulla sua condizione durante tutta la vita.
Tagliare e trattare il cordone ombelicale è anche compito della partera, e quel moncone che resta sul neonato che dopo quaI che giorno si secca e cade, viene conservato infilzato nel filo rosso di rito, che verrà consegnato al ragazzo perché lo porti su di sé.
“MoIte di noi, continua Ramona, conservano la tradizione di tagliare il cordone
ombelicale con foglie di sig-sig: quello dei bambini sempre più lungo di quello delle bambine. Con il sangue deI cordone ombelicale si massaggia la faccia deI neonato, perché sia bianco e colorato e la misura deI taglio fatto aIle femmine dovrebbe prevenire future complicazioni durante i futuri parti.
Per l’uomo è più lungo perché in questo modo avrà un pene più grande”.
Uno dei gesti più importanti, di cui avevo già sentito accennare Ramona,è quello di cocerle la boquita, cucire la boccuccia al neonato. Atto simbolico che si esegue con filo rosso e ago -sul colore non si transige- simulando la cucitura della bocca attraverso le labbra deI piccolo; dal basso verso l’alto. Cosi facendo, la tradizione dice che quando sarà grande, non sarà bugiardo, pettegolo, e non porterà il mal aire, malattia dovuta allo spirito maligno.
Si allontana cosi facendo la possibilità che diventi cattiva persona a danno della comunità intera.
“Nel caso delle levatrici -ci ricorda l’antropologo Gianpaolo Gri- il riconoscimento dellegame è corporale prima che spirituale. E’ centrato sul corpo femminile, nel momento della sua realizzazione più propria, e su un evento come il parto che più corporale non potrebbe essere. La nascita, da questo punto di vista, si configura come una sorte di evento trinitario.
Di fronte alla nuova creatura si è madri in due, si partorisce in due”.
Sono queste le parteras, le infaticabili eroine delle Ande, le levatrici che richiamano il gesto rituale deI sollevare il neonato e di presentarlo al mondo, quel gesto che costituisce “la dimensione verticale propria dell’essere umano”.
E’ cosi che ci viene restituita una dimensione perduta deI nascere, dove si addensano gesti e riti, significati simili che affrattellano culture, restituiscono memorie e destini comuni, grazie ai quali trovava senso l’entrare nella vita e nella comunità.