Fotografare Federico Tavan non è stato né facile né difficile… È stato.
Il verbo essere è d’obbligo per Federico: meglio se alla prima persona.
‘io sono /ego sum’.
Per questo Federico non lo si fotografa. Federico si fotografa da solo.
Ogni scatto fotografico - che renderebbe uno sprovveduto e incosapevole fotografo ancora ignaro della capacità di autorappresentazione di Federico, orgoglioso dei risultati fotografici raggiunti - è ancora un ulteriore ‘ego-sum’.
Primo viene il verbo: cosí quell’ego-sum si trasforma, detto fatto, in
‘sum-ego/sono io’.
Come quella mattina, come si racconta, quando Federico scese da Andreis all’alba, lui che prima delle due del pomeriggio non lasciava mai la nave spaziale - la sua camera, archivio/collezione invasa da animaletti spermatozoici, spermatozoo che è sempre stato per lui ‘rito’ e amuleto - per scendere con la prima corriera, o accompagnato dal primo cristiano che cedeva alle sue temibili e impossibili insistenze verso Montereale Valcellina, in attesa dell’apertura del chiosco del giornali. Perchè quella mattina, sapeva Federico, che su “Il Venerdi della Repubblica”, sarebbe stata pubblicata l’intervista che Attilio Giordano gli fece un paio di settimane prima. Pochi secondi dopo l’apertura del giornalaio, Federico era già nel bel mezzo della piazza e, disteso sull’asfalto, con il settimanale aperto sulla doppia pagina, dove lui, il poeta delle pantegane, troneggiava avvinghiato ad una statuetta di pietra raffigurante una donna, urlava a squarciagola: “sono io, sono io / sum ego, sum ego”.
Durante i nostri lunghi e giocosi incontri, da vecchio amico, comprendeva che un minimo di libertà creativa me la doveva pur concedere; e, con grande e magnanimo altruismo, disponeva il suo stato d’animo alla comprensione: “Ho capito che è un grande fotografo cinque minuti dopo, da come mi fotografava, io certe cose le capisco subito, mi viene l’erezione del cuore”. Ma di quella repentina e fugace erezione io non dovevo approfittare… cosí Federico si riprendeva ben presto il suo copywright.
A Palazzolo dello Stella presentando una mia mostra fotografica sui Senza Terra, Federico non poteva non immedesimarsi in loro e essere un di loro: “Danilo De Marco mi avrà fatto, più o meno, diecimila foto, ebbene, per diecimila volte ha fotografato UN DISEREDATO DELLA TERRA”. Autoreferenziale fino all’osso, ma senza perdere anche quella capacità di sottile e sferzante autoironia che sprigionava nei momenti più sereni: “Ma, essendo io un critico documentato, dico che, senza ombra di dubbio, Danilo fotografa il male. Fotografa la vita, con inferno incorporato, lui lo sa, le sue fotografie hanno la febbre [...] un dito che mostra l’abisso”.
Il dito è quello di Federico e l’abisso la sua vita…
Tra quei diecimila scatti di cui parla Federico e dalla scelta delle fotografie che compongono il libro e la mostra, credo si possa intuire il ruvido piacere con cui Federico cerca di liberare la sofferenza e di vivere il mondo. Ma anche l’affiorare qua e là di un Federico a pelle nuda, senza autodifese, che con le parole di Antonin Artaud - poeta che ama disperatamente e che mette nella sua lista subito dopo il Mestre come chiamava Pasolini - grida…
Moi, Antonin Artaud,
Je suis mon fils, mon père, ma mère, et moi;
niveleur du périple imbécile où s’enferre l’engendrement,
le périple papa-maman
et l’enfant;
suei du cu de la grand-maman,
beaucoup plus que du père-mère.
Turbolente bestemmiatoria e poetica preghiera, il grido di Federico è il grido di una generazione che lui sente ripudiata e da cui si sente ulteriormente respinto: “…E la schifosa jena che è dentro di voi ride ride ride”. Emarginato dagli emarginati. “Dalla vita ho avuto solo MERDA”.
Ma in quella merda che dice essere la sua vita trova anche il momento della quiete: “Eppure, se ci penso bene, senza ipocrisie e senza infingimenti, sto passando uno dei più bei momenti della mia vita, sono molto sereno, forse mi manca solo un grammo, per essere felice, ma un grammo è tanto”.
Per Federico si tratta di farsi vivere e di sopravvivere al male fatto (il venire al mondo), tra quello che è il ‘mal fatto’ e quello che fa male. Allora la requisitoria, ancora con le parole di Artaud, è senza fine:
La vie historique moderne est le prix d’un formidable et crapuleux
envoûtement.[...]Acte d’accusation contre ce monde,
mettre en avant les envoûtements.
Qui je suis?
Je suis Antonin Artaud,
mais j’ai toujours souffert des hommes,
plus exactement de la société.
Et qui/aujourd’hui/dira/quoi? aggiugeva Artaud…E Federico in uno scoppio di riso doloroso dove ogni incantesimo è diventato vacuo e inutile: “il poeta è morto…non scrivo più… ma di cosa dovrei scrivere oggi che ci hanno tolto anche le fate…di telefonini forse?”.
Allora il poeta/bambino allegramente disperato, che da sempre solidarizza con i perdenti, lui stesso eterno perdente, cerca di rinascere; e lancia il suo anarchico atto d’accusa contro ‘l’immondo’; atto d’accusa colmo di ironia e di amara derisione, che diventa anche testamento poetico/politico:
Son qua (ancora per poco)
Non so niente di profughi,/chiedetelo agli intellettuali,/pagati un tanto al metro/per rispondere a tutte le domande/Gli intelettuali sono certamente antifascisti/e di sinistra,/sono molto coraggiosi e impegnati,e molto colti,/naturalmente odiano il razzismo/e sono bravi a vendere magliette/ Loro, dall’Alto/dei loro attici, da Londra, da Parigi,/qualcuno da Marsure,/
dati alla mano e niente da perdere,/ti dicono tutto sui flussi e sui riflussi/dell’immigrazione,/quando entrare e quando uscire,/separano i buoni dai cattivi,/sanno quando si dovrebbero aprire le frontiere/e perché le navi affondano,/e si chiedono pensosi/perché devono venire proprio qui/a rubare il lavoro alle nostre puttane./Chiedete a loro, non a me,/cosa vi interessa/delle mie nebbie e delle mie pazzie/del finto e finito/delle briciole che raccolgo sotto i tavoli/e poi se sto male chiuso in casa/e se sto male pure a Tokio/che ci vado a fare a Tokio?”
Verso la metà degli anni novanta, la sera che Federico lascia Parigi dopo quel suo primo breve gioiosissimo soggiorno, il tempo che l’ascensore impiega per fare quattro piani: frazioni di calma inattesa in un lunghissimo silenzio dove solo un tremore impregnava il piccolo spazio racchiuso. Un balbettando e poche parole in segno di saluto: …Ritorno nel mio dolore: lo accarezzo.
“Potrei scrivere un libro su Danilo De Marco. Per me, per Danilo, per i Senza Terra brasiliani è, terribilmente duro morire, forse impossibile. Forza, Danilo, ci incontreremo a correre in un giorno di sole”.
da Federico Tavan nostra preziosa eresia fotografie di Danilo De Marco
ed. Forum