Parole

Danilo De Marco - Gatti Armand: ogni uomo è un sole (2011)

Secondo un racconto cassidico non è stata la legna del sottobosco a salvare Noé e tutti gli animali. Per sopravvivere al cataclisma Noé ha obbedito a un ordine di Dio: darsi la parola.
Anche per Armand Gatti la necessità della parola è all’origine di tutta la sua avventura umana. La parola, la frase è per Gatti una nuova arca «cosciente d’annunciarsi come continuità tra l’uomo e la natura tutta intera…». Una passione, la parola, che lo ha trasformato in un narratore prodigioso e infaticabile, che di volta in volta si libera della sua identità come se fosse una pelle morta: giornalista, regista, drammaturgo, autore, poeta…
Mots de passe, dice spesso Gatti: ridare voce alla parola, per combattere contro un «linguaggio deterministico» che già, negli anni ‘50, Armand aveva capito andare verso lo svuotamento dei significati; un uso ordinario della frase (la pubblicità); verso una società spettacolare e mercantile che fabbricava sempre di più il linguaggio e iniziava a inventare la sua morte ‘e la nostra’.
Quel suo ‘ridare voce alla parola’ è stata ed è la ricerca di un linguaggio universale, un linguaggio dei possibili che doveva e che deve servire a cambiare le coscienze e il mondo. «Noi siamo figli della parola / nati dal ritmo del mare» dice Gatti in un suo poema, ma poi non dimentica di gettare il sasso in quel mare per creare onde di disturbo «…le parole diventano pensiero nel momento in cui entrano in turbolenza».

Figlio di emigrati piemontesi, il padre Augusto anarcopacifista -figura determinante a cui Armand ha dedicato un pezzo di teatro: «La vita immaginaria dello spazzino Augusto G.» -rientra dagli Stati Uniti dopo aver assistito all’ impiccagione dei fratelli Vittorio e Alfonso anarchici e immigrati italiani, accusati per le stesse ragioni dei più celebri Sacco e Vanzetti. «Il giorno in cui seppe dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti mio padre mi annodò un fazzoletto nero intorno al collo. Avevo tre anni».
Augusto G. aveva già vissuto un’avventura terribile: durante uno sciopero fu sequestrato da una squadra «Pinkerton», detective privati. Chiuso in un sacco, pugnalato per 22 volte e gettato nel lago di Chicago. Le pugnalate strapparono il sacco e Augusto si salva.
In Italia non può tornare essendo segnalato dalla polizia del governo di Mussolini come pericoloso sovversivo. Si ferma a Monaco, in Francia, dove Letizia, la madre di Armand, lo raggiunge non senza difficoltà e problemi, dopo che i compagni hanno fatto colletta per pagarle il viaggio fino a Ventimiglia.
«Mio padre Augusto -dice Armand- a Monaco lavorava come spazzino, militando sempre nelle fila anarchiche, in un gruppo dove c’erano anche dei sopravvissuti di Kronstad. Aveva una sua dimensione del mondo: lui era il vero poeta, l’inventore di immagini. Aveva idee a dismisura.
Per questo lo hanno ucciso. Lo hanno trovato una mattina presto con la testa fracassata accanto al carretto delle immondizie. Dava fastidio perché difendeva la natura; piantava alberi attorno al casinò dove invece la speculazione edilizia voleva costruire e disboscava, per lasciare spazio libero ai ricchi per il loro divertimento del tiro al piccione. Lui piantava alberi. Per questo lo hanno ucciso».
Fin dall’infanzia a Dante Sauveur Gatti, chiamato Armand, sua madre ricordava che doveva essere il più bravo della classe, soprattutto nella lingua francese; essere meglio di loro sul loro stesso terreno. Così fin da piccolo la lingua diventa la sua arma di combattimento ma anche il suo primo amore.
« L’arma decisiva della guerriglia è la parola. Io ero figlio di emigranti poveri. Mi difendevo nelle strade e mi battevo. A scuola ho scoperto che la mia vera arma di combattimento doveva essere solo la parola, nella lingua francese, che io già divoravo in tutte le sue forme. Entrai in seminario, ma dopo una crisi mistica… via alla scoperta di Rimbaud. Scoperta che mi fece cacciare ben presto perché la parola, la poesia di Rimbaud, erano proibitissime.
Inizialmente fu una storia di ortografia e di grammatica ma poi fu quel mio tuffo tra la gente del porto… a inghiottire il verbo in quella dimensione totale, dove entrava di tutto: un’esperienza che nessuno aveva ancora esplorato. E’ così la lingua è diventata più che una famiglia, più che un paese, è diventata la mia esistenza stessa. Annotavo e annotavo sul mio quaderno blu; e poi io, il quaderno e la parola, naturalmente, non potevamo non entrare nel maquis, nella Resistenza».

La casa di Armand è a Montreuil, un tempo periferia operaia di Parigi. Più che una casa è il luogo della Parola errante dove fanno capo anche molte associazioni. Dietro la casa uno spazio di 800mq -lo stesso spazio dove nel 1895 i fratelli Lumière proiettarono i primi secondi di un film in movimento «L’arrivo del treno»- risistemato e dedicato al teatro e alle esposizioni. Ma anche rifugio estremo durante le repressioni della polizia, o luogo di accoglienza per clandestini in difficoltà.
Nel corridoio d’ingresso della casa, subito due file dense di libri alle pareti. Salendo le scale per raggiungere Armand al secondo piano, dei fogli con frasi/citazioni che coprono completamente le pareti. Poi, un piano ancora sopra, una lunga frase -Gatti è Mao che attraversa lo Tsé Kiang- a mo’ di fregio in alto alle pareti, ricordo degli anni ‘50, quando faceva il giornalista e incontrò due volte Mao in Cina. Poi inviato in America Latina; Guatemala, ma soprattutto Cuba, dove incontra Fidel Castro agli inizi degli anni ‘60. Ma già aveva lasciato per strada la sua vecchia pelle diventando regista di films. La sua pellicola «L’otro Cristobal» rappresentò Cuba al festival di Cannes del 1963, e lo accompagnava come fotografo di scena Paolo Gasparini, friulano di Gorizia partito per le americhe giovanissimo.

Ti aspettavo - dice Armand - allargando e alzando le sue lunghe braccia; tentacoli che si staccano da una figura massiccia e che potrebbero contenere una galassia. Anzi due.
Tutt’attorno libri, quaderni, fogli volanti, manifesti serigrafati: immagini di suo padre Augusto, di Gramsci, di Rosa Luxemburg, di Joyce, Cafiero… e in un apparente disordine totale, disegni, marionette, sculture di animali in legno coloratissime realizzate con vecchi strumenti di lavoro, un bellissimo orologio che segna il passare del tempo cinguettando come l’usignolo. Quegli stessi usignoli che Rosa Luxemburg e Karl Liebkneht ascoltavano nel giardino botanico di Berlino la notte della rivolta spartachista.
I suoi libri editi oltre che in francese, in spagnolo, tedesco… ma non in italiano. Alla parete una giacca di pelle nera; all’occhiello un distintivo con impresso il volto di Bonaventura Durruti:…è la giacca che aveva comperato e dimenticato per fretta Durruti nel suo ultimo viaggio a Parigi -dice con aria sicura ma da gran burlone Armand- quando accompagnato dall’anarchico spagnolo Cipriano Mera e da quello ucraino Nestor Makno, dovette correre in Spagna richiamato dai primi sussulti di guerra.
Entrando nella grande stanza, si ha la sensazione di entrare in una fiaba, o dentro uno schizzo di matita impazzito; un mosaico d’oggetti e di idee del mondo. Tutto è possibile in quello spazio.
E’ come camminare dentro un grande quadro di Paul Klee dove tutte le direzioni sono possibili contemporaneamente.
Grande drammaturgo, Armand, si immerge e immerge la parola nella poesia, nella fisica quantica, nella matematica, nella politica, nella filosofia che diventano assolutamente sinonimo di amore, lotta, resistenza, libertà, ricerca, identità…Un tuffo nel tutto.

Ti aspettavo è una parola importante per Armand. E’ legata alla sua fuga dal campo di concentramento di Linderman nel nord della Germania, vicino Amburgo. Poi per sei mesi a camminare per raggiungere Bordeaux. «Si, io non lo sapevo, ma poi scoprii che feci lo stesso tragitto di Hölderlin quando era partito verso il sole, dal mar Baltico all’Atlantico. Lui non trovò il sole e io non trovai quello che cercavo. Con i miei 48 chili di carne sfiancata, non mi restava altro che ritornare verso la fattoria di Berbeyrolle, in Corrèze; alla fattoria del père Elie. Tra quei boschi, dentro il nostro buco, la tana della nostra r-esistenza, avevamo la nostra biblioteca immaginaria. Leggevamo Michaux…e Antonio Gramsci agli alberi che ci ascoltavano sotto il peso della neve; e come armi una sola pistola 6,35 con sei pallottole…quando ci hanno preso.
Quando ritornai dal campo di concentramento il père Elie mi disse senza minimamente stupirsi:
«Ti aspettavo. Ora riposati e dammi il tempo di riprendere i contatti». Quel -ti aspettavo- dopo tutti i tormenti passati in prigionia, è stato per me come ridare voce alle possibilità della parola. E’ stato coscienza che zampilla dalla terra ».

Gatti ha messo la sua scrittura, il suo teatro a disposizione delle persone che si sono trovate forzatamente in difficoltà escluse, imprigionate. Ed è proprio nel quadro dell’esclusione che il suo teatro ha un ruolo rivoluzionario: «Una società che consideri finita ogni rivoluzione mi sembra una società totalitaria. Se il linguaggio marcisce la rivoluzione marcisce».
Ridare speranza agli esclusi; rimetterli attraverso la loro stessa partecipazione sulla scena, in un processo di riabilitazione sociale in quanto persone e ancor di più nel momento in cui queste persone ritrovano l’espressione su loro stesse e sulla società.
Un lavoro di intervento e interrogazioni certamente anche teoriche, ma sempre dentro, nella carne viva. Per questo a Gatti, San Franceso d’Assisi è così caro: «…perché sempre dalla parte della vita. Anche in punto di morte ha chiamato Chiara ed è morto in piena apoteosi».
Gatti allora si mette in azione nelle strade, con i diseredati; nelle fabbriche con Karl Marx; nelle prigioni con Ulrike Meinhof; negli ospedali psichiatrici con Carlo Cafiero. Un vero e proprio teatro di agitazione.
Le parole mi leggono -dice sovente. Una parola non arriva per cancellare la precedente, ma per arricchirla. E’ così che l’erranza continua. «Nella parola, come nell’atomo c’è un’equivalenza: la particella (la sillaba) è la stessa cosa che la sua onda, nel senso che l’accompagna. La frase così diventa il legame tra la fisica quantistica e l’ideogramma…».

Con il dolore della parola -le mots de passe- che lo segue dall’infanzia; con l’entusiasmo di un agitatore che ha capito che bisogna sacrificarsi per non «mangiare il nostro futuro», Armand ha cercato e cerca ancora di donare ali alla carta attraverso la parola errante, quella parola che si inoltra, perdendosi e ritrovandosi, nel percorso di ogni esistenza.
«Non ci sono solo le cicogne che volano nel cielo. Ci sono anche quelle che volano sulla terra che è a suo modo un ulteriore cielo. Gettate sette volte a terra, queste si rialzano otto volte».
Per Armand noi tutti apparteniamo allo stesso infinito che crediamo di vedere in cielo. Ma solo con le parole, attraverso il linguaggio, ci possiamo battere sulla terra per l’avventura umana.
Ogni uomo è un sole -ci ricorda spesso Armand.
L’ accettare l’eclissi della parola era il segnale dell’approssimarsi dell’indifferenza definitiva, scriveva Primo Levi sull’esperienza nei campi di sterminio.

Sono convinto che, come sosteneva James Joyce, non bisogna raccontare la vita o la biografia di un uomo, ma l’idea che ha sostenuto quella vita. Questo vale a tutto tondo per Armand Gatti. E di più in questi nostri tempi senza idee.