Gisèle Freund “la piccola chiacchierona”
La prima volta che chiamai al telefono Gisèle Freund, mi rispose una voce di donna dalla tonalità bassa e rauca: “Mi dispiace, ma madame Freund non è in casa, è in viaggio e non saprei proprio quando sarà di ritorno. Provi più avanti: magari fra un paio di mesi”. La stessa voce bassa e rauca mi rispose due mesi dopo. “Madame Freund è in viaggio, provi fra due mesi…”. Allora, con discreta insistenza, spiegando il motivo della mia visita, domandai quando e come poter parlare con lei. Ci fu un silenzio di qualche attimo, poi la voce disse: ” E’ fortunato, madame Freund è rientrata proprio ora”. Con mio stupore, la voce che mi si presentava come Gisèle Freund era la stessa di prima, bassa e rauca. Gisèle Freund si era fatta passare per la donna delle pulizie.
Mi accordò un appuntamento a casa sua ma mi disse: ” Le posso concedere una mezz’oretta, sono molto molto occupata”.
Il giorno fissato per l’appuntamento arrivai a casa sua puntualissimo, anzi, un po’ in anticipo. Non volevo perdere un solo minuto di quell’incontro. Mi aprì un uomo alto, quasi sulla quarantina, che poi scoprii essere Hans Joachim Neyer, direttore del museo d’arte contemporanea di Berlino. Gisèle Freund era seduta ad un tavolo, selezionava fotografie e prendeva appunti : ” Vede -mi disse ancora prima di salutare- sto preparando una mostra e ho molte cose da mettere in ordine”.
Poi, senza quasi lasciarmi pronunciare una sola parola inizia a tempestarmi di domande sul tipo di lavoro che svolgo, sul tipo di reportage che faccio, ecc…
Buon segno, mi dico, mentre Gisèle parla, parla…
Il nostro incontro, e fu il primo di altri, durò sei ore.
Al primo segno di cedimento delle sue chiacchere… incomincia timidamente a porre delle domande.
Mi piacerebbe scavare nella sua memoria, far riaffiorare gli avvenimenti che in qualche modo le sono rimasti attaccati durante l’arco di tutta la sua lunga vita. Partire da quel suo primo viaggio, il primo di una lunga serie, quello impostole in quel giorno del 1933, quando da Francoforte salì su quel treno che l’avrebbe portata in Francia…
Non potrò mai scordare quella notte del maggio del 1933…ogni particolare è impresso nella mia memoria. Stavo fuggendo in fretta e furia dalla Germania dove dilagava il terrore. In quel giorno tutto era avvenuto rapidamente. La mattina incontrai un impiegato del comune che conoscevo appena. Mi venne vicino e sottovoce mi disse: “Parta subito. Questa notte vi arresteranno tutti”.
Probabilmente conosceva l’esistenza di quel giornale realizzato in proprio che il gruppo studentesco a cui appartenevo distribuiva clandestinamente. Stava per uscire il numero sul quale denunciavamo il terrore in cui vivevano i professori dell’Università, e poi parlavamo della nostra compagna Anne. Due settimane dopo il suo arresto il suo corpo era stato consegnato ai genitori, chiuso in una bara. Sicuramente si era rifiutata di fare i nostri nomi. Io avevo fatto delle fotografie ai nostri compagni che erano stati picchiati ferocemente dai nazisti, e il capo del nostro gruppo, Karl, mi disse che dovevo partire immediatamente e portare con me quelle foto per denunciare quello che stava accadendo in Germania.
E fu facile uscire dalla Germania?
Quando arrivai alla stazione ferroviaria ero terrorizzata, ma sapevo che non dovevo darlo a vedere. Sarebbe stata la fine. In più avevo con me quelle pellicole e le SS controllavano ogni vagone, ogni persona. Entrarono nello scompartimento, presero il mio passaporto, mi guardarono e mi domandarono: “Lei è ebrea?”. Ebbi la forza dell’incoscienza e la prontezza di rispondere energicamente e offesa: “Gisèle le sembra un nome ebreo”? Lo fissavo dritto negli occhi mentre il mio cuore impazziva…mi restituì il passaporto e richiuse la porta dietro di sé. Ma sapevo che dovevo ancora passare la frontiera, e più si avvicinava e più pensavo a quelle pellicole…avevo paura. Andai allora alla toilette e svuotai la macchina fotografica gettando la pellicola nel water. Il rullino più importante lo nascosi su di me. Alla frontiera guardarono dappertutto; aprirono la camera fotografica e quando stavano per perquisirmi, un attimo di esitazione e l’SS richiamato dagli altri che camminavano lungo il corridoio del treno uscì dallo scompartimento. Ebbi una fortuna sfacciata. Il treno si mosse e passammo la frontiera…l’unico passeggero che, silenzioso, mi accompagnava e che era rimasto accovacciato in un angolo semi-coperto da un pastrano e da un grande berretto, per la prima volta mi guardò e sorrise. Arrivai a Parigi alla Gare du Nord. In quel momento ero come svuotata ma felice. Non potevo ancora sapere che tutti i miei compagni erano già stati arrestati.
Parigi quindi…
Non fu facile. Mi iscrissi alla Sorbona per seguire i corsi di sociologia, ma a soldi era durissima e i miei genitori mi mandavano per vie traverse, quando e come potevano, qualcosa. Ma non bastava per sopravvivere. Mi appassionai alla letteratura…in quell’epoca a Parigi accadeva una cosa rara: una coesistenza di scrittori così brillanti e di diverse generazioni tutti assieme. Cercai contatti con il mondo letterario e fu grazie al filosofo Bernard Groethuysen, che mi fu presentato dalla sua compagna Alix Guillain, che mi fu possibile frequentare quell’ambiente. Iniziai così ad incontrare André Gide, André Malraux, Paul Valéry, Henry Michaux ecc… Nel frattempo ci fu l’incontro, rue de L’Odéon, con Adrienne Monnier e Sylvia Beach. E’ frequentando le loro due librerie che incontrai molti dei miei futuri modelli. Poi a Montparnasse, alla Coupole e alla Rotonde feci conoscenza con i surrealisti che facevano gruppo attorno a Breton.
Ma intanto continuava la mia piccola vita. Alla Sorbona avevo deciso la mia tesi: la storia della fotografia del XIX secolo.
Era fotografando che mi ero posta un mucchio di domande: bisognava prima di tutto imparare a vedere e così incominciai a mettere la fotografia e la società dell’epoca in relazione.
Fu così, frequentando per le mie ricerche varie biblioteche, che alla Nazionale incontrai Walter Benjamin.
E la fotografia…?
Giravo con la macchina fotografica e a forza di fotografare mi ero posta molte domande. Ma non potevo certo guadagnare con quello. Una sera, una di quelle sere autunnali dove la pioggia non smette mai, così frequenti a Parigi, mentre stavo atrraversando il Pont des Arts, vidi degli uomini che stavano trascinando a riva un grosso fagotto. Mi avvicinai e riconobbi che quel fagotto non era altro che una bella ragazza annegata. Ricorderò sempre le sue scarpe, nere, con il tacco altissimo da cui scendeva l’acqua. Avevo con me la macchina fotografica e scattai. Me ne ritornai tristemente verso casa pensando a quella bella ragazza.
Il giorno dopo un amico che per pagarsi gli studi scriveva brevi articoli di cronaca, mi chiese le foto dicendomi: “Può darsi che il mio direttore le pubblichi”. La sera ritornò tutto contento e mi diede un biglietto da dieci franchi dicendomi:”Il direttore ha detto che la foto è piuttosto brutta, ma la storia della bella annegata gli interessa”.
Per me era un avvenimento: era la prima volta che guadagnavo del denaro con la fotografia. A dire il vero, poi nel tempo, l’immagine di quella ragazza riemerse così spesso nella mia memoria…forse a causa di un senso di colpa per quella morte che mi aveva fatto guadagnare i primi soldi con la fotografia. Così inizia veramente a fotografare: giravo per le vie dei quartieri facendo ritratti al calzolaio, alla figlia della lavandaia, al venditore di vini la cui moglie disgustata gettò via tutte le foto…era in ogni caso difficile guadagnarsi il pane con il ritratto fotografico, e per di più come alcuni di noi giovani fotografi lo concepivamo. Realista. Per farsi pagare bisognava ritoccare tutte le imperfezioni, abbellire il modello…ho sempre pensato che noi abbiamo un’idea psicologica di noi stessi e restiamo sempre delusi quando poi ci vediamo in fotografia. Così mi avvicinai al reportage. Era l’unico modo per guadagnare qualcosa.
Il reportage appunto. Lei ha sempre sollevato il problema etico della fotografia.
E’ passato ormai molto tempo da quando discussi con Cartier-Bresson di questo. La realtà e la sua comprensione sono differenti per ogni persona e per ciascun giornale. Quando Cartier-Bresson ritornò dalla Cina molti anni fa, tutti i giornali utilizzarono le sue foto contro la Cina. Proprio quello che lui non voleva. Quando nel 36 fui mandata in Inghilterra dal direttore di Life, dovevo fotografare le regioni in crisi del nord dell’Inghilterra: operai disoccupati, villaggi fatiscenti, miseria. Nello stesso periodo ci fu il caso Wally Simpson. Il re Edoardo di Inghilterra era innamorato di un’americana divorziata. Scoppiò lo scandalo. L’Inghilterra ancora vittoriana non poteva ammettere che si facesse di Mrs. Simpson una regina. Il re abdicò. Tutta l’America si sentì offesa. Life pubblicò il mio reportage con il titolo “Ciò che un inglese intende per paese in crisi”. Tra le mie foto di miseria e disperazione avevano inserito una doppia pagina con una foto della regina in abito bianco circondata da ogni ben di Dio e i nipoti sulle ginocchia. La brutalità del contrasto rendeva sufficientemente. Mrs. Simpson da buona americane era vendicata…in barba al problema di milioni di poveri e del loro dramma
Comprendemmo allora che non potevamo farci nulla, che lavoravamo per loro e che loro avevano il potere di trasformare a loro piacimento il significato del nostro lavoro. Molte volte quando uno è fortunato e vede le sue foto stampate sulla rivista, può succedergli di non riconoscerle. Mi è successo più di una volta. La verità è quella dell’impaginazione, della didascalia, delle forbici…
Con un gesto furtivo ma ben visibile, estraggo la mia macchina fotografica dalla borsa. So bene che madame Freund non ama per nulla farsi fotografare.
Ma cosa fa. Ah la la… non vorrà mica fotografarmi? Ho orrore di essere fotografata…e poi sono stanca e non mi sono neppure pettinata…
Sapevo che molti anni prima Mapplethorp le aveva fatto visita e l’aveva fotografata.
Lei ha conosciuto Mapplethorp vero? Mi racconti un po’di quella visita.
Venne da me e mi chiese di fotografarmi. Io gli domandai perché e gli dissi che detestavo essere fotografata. Mi rispose che aveva bisogno di denaro e che con quelle foto poteva procurarselo. Ripensai allora alla mia gioventù. Accettai. Mi obbligò poi a scrivere per lui, cosa che inizialmente non avevo per nulla voglia di fare, e gli chiesi perché io. “Perché lei è celebre” mi disse. Io che potevo essere sua nonna e non capivo in che cosa consistesse la mia celebrità…e poi quello stile fotografico! Tutto si opponeva a me, al mio modo di essere. Ma lo trovai un caro ragazzo.
Così ritornò per fotografarmi. Gli chiesi che cosa dovevo fare. “Per me è indifferente-mi rispose- faccia quello che vuole, tanto io fotografo sempre me stesso”. Rimasi a bocca aperta. Trovavo questo molto naïf. Fece le foto e se ne andò. Mapplethorp voleva essere una donna, una donna super erotica; per lui tutto era erotismo. Pensi che fotografò anche me in modo erotico. E poi i suoi tagli, i suoi frammenti…sono apprendimento del surrealismo. Durante la sua malattia, quella terribile malattia, si fece molti autoritratti. Gran parte dell’intelligenza americana è morta di AIDS, e una gran parte era omosessuale. Fino a non molto tempo fa, negli Stati Uniti, bastava essere sorpresi mano nella mano per rischiare la prigione. Ora tutto è cambiato, anche in Europa. Tanto la questione è esplosa. Un mio amico fotografo omosessuale americano ha tenuto qui a Parigi una conferenza proprio sui fotografi omosessuali e sul diritto alla loro “diversità”, senza farli più sentire dei criminali perversi. Eppoi, insomma devo dirlo proprio io alla mia età, che in ogni uomo e in ogni donna ci sono le due parti? D’accordo gli risposi, a me non importa proprio nulla di come fate l’amore: quello che mi interessa è il vostro lavoro. Sono le vostre fotografie.
Ma mi faccia capire meglio il lavoro di Mapplethorp…
Ma guardi qui, questo libro di sue foto. Lui ci presenta la società in cui viviamo. La Jet Society. (Jet Set) Nessuno nelle sue foto sorride e per la prima volta sono proprio loro i soggetti fotografati e sono fotografati nudi, e mostrano il petto, le gambe e tutto il resto. Mapplethorp rende tutto ciò erotico, ma sono bambole erotiche, l’umano è scoparso. Tutto è artificiale. Ecco, la nostra società è artificiale. Bene, lui ha avuto il coraggio di farle quelle immagini…anche se alcune sono proprio brutte. Mi ricordo ad Arles, quando proiettammo nel grande anfiteatro romano, in presenza di oltre 2000 persone, su di uno schermo di trenta metri, le sue fotografie. Fu subito scandalo accompagnato da crisi isteriche e di furore da parte di quei bravi e ipocriti borghesi. E tutto questo continuò ancora dopo la sua morte. Quando negli Stati Uniti il governo decise di finanziare una galleria per esporre la sua opera, cosa rarissima dato che là tutto è privato, gli stessi benpensanti-ipocriti inorridirono al pensiero che con i soldi da loro versati al governo si potesse finanziare un’opera così immorale. Naturalmente non se ne fece nulla. Ma Mapplethorp se ne fregava dei benpensanti…
Ma ritorniamo per un momento ad un nome che prima le è quasi scivolato, sommessamente dalle labbra. Il suo professore: Walter Benjamin.
All’epoca parlavamo di politica; era quello che gli interessava maggiormente. Del lavoro che stava facendo su Baudelaire non diceva nulla. Tutto rimase solo a livello di note e appunti e fu completamente stupefatto quando a sua insaputa vennero pubblicate, quelle note. Gli furono rubate. Un vero scandalo. Era molto preoccupato della sua situazione economica. Non aveva denaro. A volte neppure per mangiare. Incontrò Gide e altri scrittori del tempo, che egli fece conoscere in Germania. Ma nessuno lo aiutò mai. Quella gente là non si rendeva conto cosa significasse essere senza denaro, senza patria. Che cosa significasse essere un rifugiato politico. Non lo comprendevano proprio. E poi si allontanarono da lui anche perché il suo francese non era proprio così perfetto. Una situazione, la sua, quasi disperata. Aveva solo un vestito: io lo vidi sempre con quello, e sempre più lucido, più malandato. Quando non aveva neppure i soldi per mangiare rimaneva giorni interi a letto. Nessuno pubblicava i suoi articoli. Insomma a Parigi aveva pochissimi amici e nessun aiuto.
Ma come poteva allora sopravvivere?
Aveva una sola e misera entrata. E anche quella pagata a caro prezzo. Era l’altro tedesco, il suo…amico, come si chiamava, mi aiuti…il mio professore di Francoforte…
Adorno?
Si proprio lui. Adorno dirigeva assieme a Horckheimer l’Istituto per la ricerca sociale di New York e gli faceva inviare del denaro in cambio dei suoi articoli. Ma un giorno anche Adorno iniziò a criticare certi suoi pensieri. Ero presente quando Benjamin ricevette per lettera le critiche che gli muoveva: divenne rosso come un pomodoro. Mise delle settimane per rispondergli, ma finì con il cedere e accettare il ‘taglio della parola’…era l’unica via di sopravvivenza economica che aveva.
E poi io penso che Benjamin fosse comunista solo nella testa. Credo che fosse più una sorta di filosofo-scienziato illuminato. Forse più anarchico che comunista…diciamo un’ anarchia nel suo farsi nella realtà…e naturamente anche nel pensiero. Quella metafisica della gioventù…da cui non riusciva a staccarsi. Quell’idea del sogno…e quando mi leggeva i versi di Brecht diceva:” Vedete, ha già un piede fuori dal partito comunista. Uno che pensa non può gettarsi ciecamante nella gola del lupo”. Infatti quando andò a Mosca non accettarono nulla di quello che aveva scritto. Ripartì completamente deluso e demoralizzato. Fu un’esperienza su cui ritornò più volte. Non poteva, non riusciva ad accettare…
Ma quel suicidio proprio nel momento in cui poteva salvarsi?
Benjamin aveva paura di tutto. Si spostava sempre con una capsula di cianuro in bocca. Erano momenti difficili. Si trasferì nel paese dove viveva sua sorella, vicino al confine italiano e… scoppiò la guerra. Fu immediatamente arrestato con molti altri tedeschi. Per i francesi un tedesco era un tedesco; non importava se antifascista o meno. Io allora avevo già la nazionalità francese.
Mi diedi molto da fare per riuscire a liberare Benjamin e gli altri intellettuali antifascisti. Quando uscì di prigione si preparò per partire. Fu invitato mille volte in Israele, ma rifiutò sempre di andarci. Non negò mai di essere ebreo ma affermò sempre con vigore di non essere religioso…e poi il sionismo… non voleva proprio averne a che fare. In quel tempo furono dette e scritte cose ignominiose su di lui per questi rifiuti…ma monsieur le professeur fu sempre un uomo sano e sincero. Intellettualmente sano e sincero e differenza di alcuni suoi amici…
Si sarebbe salvato se fosse partito per Israele. Invece rifiutò. Fu arrestato di nuovo e si suicidò.
E’ crollato il muro di Berlino assieme a quello che quel muro rappresentava. L’Europa nell’arco di alcune settimane si è trovata in una situazione geopolitica totalmente diversa, improvvisamente nuova e piena di speranze…
Io conosco bene i tedeschi; sono nata là e ho vissuto vent’anni in Germania, gli anni della mia formazione. Quello che ricordo è OBBEDIENZA, OBBEDIENZA. La Germania dell’Ovest è la nazione più potente d’Europa. La maggioranza vorrebbe essere socialista ed è proprio quello che bisognerebbe fare. Restino pure assieme le due Germanie, ma con governi separati, autonomi l’uno dall’altro…ancora non si è capito quello che è successo.
Io sono molto popolare in Germania tra i giovani dai 18 ai 22 anni, e quando vado nelle università a tenere qualche seminario cerco di far comprendere loro la storia; racconto, anche con le mie fotografie, la storia. Sono seguita attentamente ma quando, a volte, mi scappa il nome di Hitler, pensi un po’, tutti si mettono a ridere. Pensano forse al film di Charlie Chaplin, e ridono, come se fosse stato un povero pazzo un po’ buffo e perché no, comico. Tutti ridono e a me vengono i brividi. In Germania solo ora, e malamente, si comincia a fare l’esame di coscienza, si parla di quei luoghi dove furono mandati a morire milioni di ebrei, zingari, omosessuali, comunisti ecc…No, non ho ancora nessuna fiducia nei tedeschi e poi…hanno una mentalità così sentimentale, mi verrebbe da dire romantica…pensi che amano ancora Wagner…
Ma allora non è più possibile sognare, fare i conti e uscire dall’incubo?
Io ho sempre avuto i piedi ben piantati per terra, e probabilmente per questo sono riuscita ad arrivare agli ottant’anni e a fare molte cose…ma viene anche il momento di sognare. Il sogno ci è necessario, senza sogno è come vivere tutto il tempo con gli occhi aperti…com’è stato forzatamente il tempo della mia gioventù.
Qual è il suo sogno oggi?
Da qualche tempo non fotografo più, è troppo faticoso per me…proprio ora che stavo sognando di diventare una fotografa celebre, con mille idee per la testa, tante cose da fare… oggi che siamo assediati delle immagini, che ci fidiamo stupidamente delle immagini. Quanto lavoro ancora da fare …la fotografia, nuove tecnologie…sarà tutta un’altra cosa…Ma attenti alla dittatura dell’immagine…Attenti!
Ma ho parlato e parlato…lo sa come mi chiamava monsieur le professeur a Parigi…? : ” la piccola chiacchierona”. Monsieur le professeur mi amò molto, ma per me era il professore e poi mai mi sarebbe venuta l’idea…ma trent’anni dopo rimasi molto colpita da un suo testo dove diceva di aver avuto molta simpatia per me…
Ma è già molto tardi e non abbiamo pranzato…viene con noi qui sotto al ristorante cinese?
Mi piacerebbe molto restare ancora con lei… ma Gisèle incalza:
” Non mi dica che non vuole!?.”
No anzi…
” So bene che è a corto di denaro. E’ per questo che la invito. ”
E così pranzando tra cibi laccati e bevendo tè profumato ricominciamo a parlare…o meglio Gisèle continua a raccontare… Il Messico, Siqueiros, Tina Modotti, Evita Peròn…ma questa è un’altra storia.