Sembra non avere fine il progetto idraulico più colossale del mondo, quello della gigantesca diga di Sardar Sarovar nel Gujarat, (30 grandi dighe, 135 medie e 3000 piccole) definito dalla scrittrice indiana Arundhati Roy «il più grande disastro ambientale pianificato». Incominciato nel 1961 con il presupposto di «spegnere la sete di milioni di uomini» e di essere «l’ancora di salvezza» del Gujarat, quello che oggi è diventato il bacino della diga e il suo allegato Wonder Canal, si è trasformato in un incubo per le centinaia di migliaia di famiglie già costrette ad andarsene e che attendono ancora una equa sistemazione, e per quelle che oggi si sentono minacciate da un ulteriore estensione della diga. Si prevede che in totale a lavori ultimati, per il progetto Narmada più di un milione di persone saranno state evacuate, centinaia di migliaia di ettari di foresta sommersi, altrettanti ettari di terre fertili e coltivabili allagate, interi villaggi innondati assieme a siti archeologici e antichi templi indù.
Dalla dichiarazione d’indipendenza dell’India nel 1947 più di 40milioni di persone sono state «spostate» per la costruzione delle dighe e di quei 40milioni il 60% appartengono alla casta dei dalit, gli intoccabili, come qui vengono chiamati.
«Da qualunque parte li si guardi, i progetti per lo sviluppo della valle del Narmada sono Grandi. Sono destinati ad alterare il sistema ecologico dell’intero bacino di uno dei più importanti fiumi dell’India e influenzeranno la vita di 25milioni di persone che vivono in quel territorio, uno dei più fertili del paese», continua Arundhati Roy.
La Narmada, l’acqua di un fiume è sempre al femminile, oggi chiamata mare Narmada, nasce nell’altopiano di Amarkantak, nel distretto di Shahdol, nel Madhya Pradesh, e durante la sua corsa di 1300 chilometri quasi tutta nel Madhya Pradesh, segna il confine con il Maharashtra, attraversa infine il Gujarat per 180 chilometri, e sfocia nel Mare Arabico.
Per entrare nel sito del progetto idraulico di Sardar Sarovar ci vuole un permesso che si ottiene sul posto. Niente macchine fotografiche. Tutta la zona è vigilata da occhi in divisa. Subito mi colpisce la parte già costruita della nuova estensione della diga: 10metri, secondo il progetto. Ma a occhio sembra molto di più. Per ora i lavori incespicano grazie alle proteste del Movimento del Narmada Bachao Andolan, alla tenacia, al carisma e agli scioperi della fame della sua leader Medha Patkar. Nonostante la stanchezza di lunghi anni di lotta, il tempo logora la povera gente che non sa nemmeno come nutrirsi, Medha mobilita ancora intere popolazioni. Nello scorso mese di febbraio assieme a qualche centinaio di persone, Medha ha bloccato per giorni l’ingresso principale del palazzo del governo del Maharashtra a Bombay e iniziato un ennesimo sciopero della fame. Solo così è riuscita a far firmare un documento dove il governo del Maharashtra si impegna ad intervenire direttamente verso la ditta costruttrice, questa volta tutta nazionale, la Jai Prakash Associates- veri edificatori della nazione, proprietari della Siddharth Continental e di una immensa catena di alberghi- per «spingerla» a rinunciare all’ampliamento. “Purtroppo sappiamo che è ancora un diversivo per guadagnare tempo: sono19 anni che lottiamo e che i governi non mantengono la parola data.
Il più delle volte assegnano terre incoltivabili. Ora sono anche ridicoli: ci promettono centri commerciali nei villaggi ricostruiti. Ma questa gente non ha neppure il pane. Che cosa se na fa dei shopping centre»? afferma Medha¨Patkar.
Costeggiando il Wonder Canal, 213 metri di larghezza, 75.000 chilometri di sviluppo, a tutt’oggi ne sono stati costruiti 460, mi rendo conto che ha tagliato in due le proprietà di questa gente: le case da una parte le fattorie dall’altra. Distrutto pozzi e alberi.
Per raggiungere il ponte più vicino e attraversare il canale la popolazione è costretta a camminare tre chilometri. E poi ancora per raggiungere i campi. Nonostante questo è stata dichiarata «non daneggiata dal progetto».
«Questo canale, - mi spiega Philip Mathew giovane dirigente del Narmada Bachao Andolan, attraversa prima quello che viene chiamato a sud e a nord della Narmada, il ‘corridoio dell’oro’ per la sua fertilità, e proseguire verso il nord del Gujarat per raggiungere la penisola del Saurashtra, dove esiste una forte industria costiera e una raffineria: tutte imprese sotto controllo della potente casta dei Patel, che sono al governo nel Gujarat. Nel Saurashtra solo una piccolissima parte, il 15% del territorio è coltivabile e il canale ne irrigherà solo il 9%. Nel suo spropositato progetto tutto a vantaggio delle industrie, il canale ha irrigato solo per due settimane nel maggio del 2003».
Il “corridoio dell’oro” si trova totalmente nel Gujarat dove imperversa un governo fondamentalista, nuclearista, guidato dal partito nazionalista indù, il BJP, (il BJP governa anche la nazione). Una destra che incita a un patriottismo assetato di sangue è stata, secondo lo storico Jairus Banaji, nel febbraio e marzo del 2002 durante le violenze che hanno provocato 3000 morti quasi tutti musulmani, “il mandante all’istigazione e alla pratica del genocidio e l’esecutore materiale-suoi uomini con cariche pubbliche erano in prima fila- degli stupri collettivi di donne”.
Il “corridoio dell’oro” è disseminato di industrie farmaceutiche e raffinerie nazionali e multinazionali, come la Bayer, o la Pepsi Cola… «che sono perfettamente in sintonia con questo governo finanziandone le campagne elettorali che si sono trasformate in crociate contro tutti i movimenti ecologisti e civili che affiancano le lotte del Narmada Bachao Andolan. Siamo minacciati quotidianamente. Ci chiamano nemici della nazione, terroristi», mi dice un militante del People’s Union for Civil Liberties di Baroda, organizzazione in difesa dei diritti umani.
Queste industrie usano l’acqua in modo sconsiderato, togliendola all’irrigazione e all’uso domestico e scaricano i residui chimici nel territorio. L’acqua per irrigare e per bere è ormai contaminata. Più a sud irrigazione intensiva e industria della canna da zucchero. «Di questo passo ben presto ci troveremo di fronte ad una palude chimica e più del 50% del “corridoio dell’oro” saturo, non assorbirà più».- mi spiega Philip. I conti sono presto fatti: chi avrà il controllo del bacino e del canale avrà il monopolio sull’acqua che nel prossimo futuro costerà molto cara da queste parti.
Il giorno dopo nella doppia luce dell’alba, in India si dice sia l’ora più bella, in cui i rishi «coloro che vedono», meditano solitari, ci dirigiamo su una strada impossibile verso Hapeshwar, piccolo lembo di terra che si getta nelle acque della Narmada. A metà tragitto ci fermiamo in un piccolo villaggio a prendere un té bollito nel latte, come qui si usa.
Ombre di figure umane indaffarate sono sorprese e incuriosite dal nostro arrivo. Si avvicinano. Ci circondano. Attaccatissimi i loro corpi premono sui nostri, mentre il vapore che esce dalle narici delle mucche avvolge tutti in una tiepida odorosa foschia. Uno di loro inizia a parlare indi in modo concitato, con il mio accompagnatore, Harsh Kappor. «Questa notte, mi traduce Harsh, le acque dei pozzi sono salite da sole ehanno allagato i campi: come altre volte è l’avviso di un possibile terremoto». Siamo in piena zona sismica e la nostra diga si trova a poche decine di chilometri. Ma nessun timore, la ditta costruttrice ha garantito che la diga terrà almeno fino a 6,5 grado Richter.
Ad Hapeshwar ecco l’immensità del mare Narmada che stiamo per sfidare con una piccola barca a motore. Le antiche canoe da fiume scavate in un tronco d’albero non sono più adatte alle micidiali correnti, ma questa gente non ha alternative per spostarsi. Molte comunità sono isolate e ormai raggiungibili solo con la barca. Un antico tempio indù galleggia sull’acqua e vi si rispecchia come una cartolina. Ora il livello dell’acqua è basso, ma quando arriverà il periodo delle piogge la cartolina verrà succhiata. Più avanti in una zona pianeggiante, enormi depositi di limo, trappola mortale per gli animali che cercano di abbeverarsi, ci impediscono l’avvicinamento alla riva. Un gruppo di persone senza terra sta coltivando sui banchi di limo poco profondi lasciati dal fiume durante la stagione secca. Quante volte questa gente ha visto strapparsi sotto gli occhi i piccoli orti di sopravvivenza perchè lassù a monte aprivano le bocche delle dighe? Ci salutano alzando le braccia e gridano ghindaba: è il segno che la resistenza continua.
Accostiamo verso il villaggio di Domkhedi. Qui c’è stata una dura lotta, e questa gente, tutti tribali adivasi (oppressi), è rimasta nelle case o si è legata agli alberi, quando l’acqua è arrivata per la prima volta. Non hanno desistito. Sono rimasti a bagnomaria con l’acqua alla gola per diversi giorni. E dal 1995 al 2003 un’inondazione dietro l’altra. «Non se ne parla, di qui non ci muoviamo» mi dicono. Ma temo che la prossima volta toccherà anche a loro.
Altri villaggi saranno sommersi: come quelli di Ningeauan e Jaalsindhi, dove il Bachao Andolan, in assenza completa dello stato ha organizzato scuole, dormitori per la notte alle centinaia di bambini delle comunità disseminate nel territorio altrimenti abbandonati a se stessi. I bambini si autoorganizzano, gestiscono la loro giornata, preparano il cibo, fanno le pulizie,studiano, giocano. Ora si radunano sotto il grande albero Mahua dai fiori coloratissimi, visto che l’antico tempio è stato inghiottito dalle acque, per pregare e riunire a collane i fiori per le feste tribali. Mi dicono che sarà questa la prima generazione di quelle tribù a saper leggere e scrivere.
Dopo due giorni abbandoniamo il mare Narmada. Insistono per farmi vedere una digha alternativa da loro costruita sul letto di un piccolo fiume. Una barriera di sacchi di cemento che permette all’acqua di non scorrere via, creando un bacino di pochi centimetri di profondità. Sorrido. Ma orgogliosi mi dicono che con quella piccola riserva d’acqua sono riusciti a dare luce a quasi una ventina di villaggi. Il grande progetto Narmada invece non ne ha illuminato nessuno.
Dev Ran Kanera è un uomo sulla cinquatina. Vive a qualche chilometro dalla città di Barwani, nel villaggio di Kaparkheda uno dei tanti villaggi che scompariranno. Era un piccolo proprietario terriero: assieme a molti altri ha venduto tutto e si è dedicato al movimento.
«Da quando è cominciata questa lotta 19 anni fa, la mia vita è cambiata. Prima vivevo per i miei campi e la famiglia, tra il villaggio e la casa. Ma è arrivata gente da ogni dove: abbiamo cominciato a parlare, a riflettere. Ho capito molte cose…anche se perderemo avremo guadagnato qualcosa di impagabile: la coscienza di avere dei diritti ».
Dev mi racconta del loro lungo sciopero della fame:”siamo riusciti a far sospendere i lavori per 12 anni e messo fuori gioco la Banca Mondiale».
A tutti i livelli anche delle negoziazioni tra i tre governi coinvolti, si è sempre tentato di eludere la dimensione umana del progetto e Dev sa che le speranze di bloccare definitivamente la nuova innondazione sono poche.
La Suprema Corte ha fermamente decretato che il livello della diga non potrà essere innalzato finchè tutte le famiglie non saranno rialoggiate almeno sei mesi prima della continuazione dei lavori, ma questa decisione è stata largamente ignorata dai governi del Maharashtra e dal Madhya Pradesh. E c’è di peggio. Come il falso rapporto che lo stato del Gujarat ha redatto con la complicità di quello del Maharashtra sulla redistribuzione di 500milioni di rupie, mai avvenuta, per riinstallare le popolazioni danneggiate.
«Con la prossima tappa del progetto, il Narmada Sagar, saranno sommersi altri 254 villaggi, 91.348 ettari di fertile terra e almeno 250.000 persone evacuate senza la certezza di un luogo dove andare»; conclude Dev. Oggi in India la situazione è tale che si continua a chiedere sacrifici alla parte più povera, agli 800milioni che vivono ai limiti più bassi della scala sociale, allo stesso modo in cui si obbligano i soldati a morire in guerra per la patria. Un esercito di derelitti senza illusioni, vittime dello sviluppo, in gran parte adivasi tadvi, il più delle volte privi di dati anagrafici, che non sanno nè leggere nè scrivere, sprovvisti di qualsiasi attestato che comprovi la proprietà delle terre in cui vivono da generazioni. Perderanno anche quel poco, pronti per essere trasformati, nel migliore dei casi in braccianti itineranti presso le piantagioni di canna da zucchero o di cotone. Salario giornaliero: da 20 a 35 rupie al giorno. Poco più e poco meno di 50 centesimi di euro. «Le grandi dighe- afferma Arundhati Roy- stanno allo Sviluppo di una nazione come le bombe Atomiche al suo Arsenale Militare. In entrambi i casi si tratta di strumenti di distruzione di massa, usati dal governo per controllare il suo popolo».
gennaio-febbraio 2004