[...] Ci incamminavamo, io e Cid, come due adulti, chiacchierando lungo la strada asfaltata che saliva verso Cave del Predil dove, ad un paio di chilometri, ci attendeva la fonte d’acqua freschissima che scendeva dalle montagne e con cui avevamo da sempre appuntamento e dove Cid, mi parlava dell’acqua e della vita.
Continuando rasenti al muro di contenimento della strada nazionale per qualche chilometro, dopo la falegnameria in basso a sinistra e il bivio che portava verso Fusine, ci inoltravamo nel bosco. Una luce seròtina filtrava tra i fitti rami degli abeti giganti rendendo il paesaggio fantasmagorico: ma in quel tempo il bambino che ero non interrogava il paesaggio, come può fare un adulto. Il bambino che ero stava nel paesaggio. Ne faceva parte.
Cid era talmente di casa nel bosco che quando mi lanciava, improvvisa, un’occhiata da sotto la falda nera dell’immancabile cappello, intuivo che qualcosa stava per accadere: sapevo che avrei dovuto seguirlo senza porre domande. Quanti silenzi in quei boschi e quante occhiate ci siamo scambiati. Se, per esempio, c’era un albero ferito, l’odore di resina non sfuggiva alle narici di Cid.
Come un felino che ha individuato la sua preda, dilatando quel suo celeste fosforescente a tutta l’orbita della pupilla, si incamminava rapidamente in una precisa direzione, zigzagando gli alberi che incontrava. Poco dopo incontravamo grosse sacche di resina che ne avvolgevano varie parti del tronco. Allora estraeva dalla sua borsa una tela di sacco e la riempiva di quell’essenza, come lui la chiamava. A volte scendevamo la piccola scarpata che conduce all’acqua del Rio Freddo. Cid, adocchiando le grandi pietre e disegnandole nel vuoto con larghi e lenti gesti delle braccia che lo facevano assomigliare ad uno sciamano, mi parlava con una voce che si innestava in me lentamente, cadenzata da un ritmo cesellatore che appuntava e scalpellava le parole. La mola di pietra del mulino gli era rimasta talmente impressa che il suo mestiere era diventato, come amava parafrasarsi, quello dello scalpellino. Con voce cavernosa ma allo stesso tempo suadente e con una proprietà di linguaggio che poche volte ho rincontrato, cercava di mettermi in guardia sulla necessità di badare alle parole. Le parole: non dimentichiamo le parole. Usiamole bene. Perché sono un po’ la nostra coscienza, il nostro centro di gravità. La condizione umana, che è gravida di minacce, è scandita dalla parola.
«Se tutto deve morire, moriamo senza rinunciare all’unica cosa che ancora può essere nostra, perché è l’unica che è di tutti, le parole… e su di esse, fondare, un’altra volta o per l’ultima volta, l’opportunità dell’esistenza»1.
Di quel periodo ricordo perfettamente il suo dire di una sconosciuta luce di cui nel magma più profondo del nostro essere possiamo ascoltare ancora il rumore di fondo assieme ad una parola usata ripetutamente, che Cid pronunciava solo e sempre in friulano e chiave di volta dei nostri dialoghi: il puartelon.
Il puartelon annunciava, nel suo dire, la storia di dodici umani che lui chiamava l’orda: che era in verità una storia ancora più antica del puartelon, di uomini che ci hanno lasciato una ricchezza di creazioni poetiche e un’eredità spirituale inesauribile. Quegli uomini raccoglievano mele, bacche, radici, foglie… e distribuivano secondo necessità. Ricercavano il cosmos (ordine) nel domus (abitazione) spazio addomesticato, scelto e non subito. Questo senza impedire agli elementi dell’universo di continuare a convivere e penetrare in quel ‘rifugio chiuso’. Il puartelon diventava, nei racconti di Cid, la metafora di un caos (disordine) delle diseguaglianze; la porta d’ingresso di un recinto dove veniva concentrato il raccolto di tutti, senza però che poi fosse ridistribuito in modo equo.
E continuava, continuava parlando di esclusi e di esclusione; di quelli che erano costretti a restare nella caotica realtà del ‘fuori’.
«La miseria non si verificava nelle società primitive, poiché gli obblighi di solidarietà impediscono che essa esista allo stesso titolo della scarsità… Se i primitivi sono poveri, immensamente poveri, essi non conoscono quella alterazione del carattere e della vita che produce la miseria».2
Ma udivo anche, per la prima volta, nomi di personaggi di difficile pronuncia: Cid parlava di loro semplicemente e, allo stesso tempo, con acuta conoscenza.
Pensavo fossero amici suoi di lunga data, forse di gioventù. Dava l’impressione che fossero persone con cui manteneva ancora frequentazioni assidue. Tra enormi pietre in bilico sputate dalla montagna in tempi immemorabili, abeti centenari e chiacchiericcio del sottobosco, sorgevano dalla profondità della voce di Cid nomi come Eraclito, Tucidide, Epicuro, Euripide, Erodoto, Diogene Laerzio… La sera, rientrando a Tarvisio, cercavo di capire dove avremmo potuto incontrare quei suoi amici così interessanti e in particolare quell’Eraclito che Cid diceva essere un pre… di qualcosa di cui allora non riuscivo a memorizzare il seguito e di cui amava parlarmi più degli altri, indicandomi quasi sempre l’acqua che scorreva nel Rio Freddo. Non li incontrai mai questi suoi amici. E mai mi svelò il segreto. Da solo, qualche anno dopo, scoprii tutto. Assieme poi proseguimmo sulle tracce dei presocratici.
Quelle pietre, assieme al gesso, alla creta e al legno, negli anni che seguirono sarebbero state le sue compagne di ogni giorno. Quante ne ho incontrate anch’io nei suoi cantieri quasi sempre all’aperto, dove non mancavano quasi mai in sottofondo, diffuse da un vecchio grammofono - come lui amava scherzosamente chiamarlo - le note della Danza Macabra di Camille Saint Saëns.
La musica - diceva - suscita un sentimento totale, oceanico, e la danza una percezione lontana, misteriosa. Mentre ascoltavamo Saint Saëns, all’improvviso atteggiava la mano in un gesto d’attesa, reclinava la testa da un lato per catturare meglio il momento dello squillio dei campanelli… ecco, noi siamo, di tutta un’opera, solo l’attimo di quello squillio. Un mistero tremendo. E concludeva spesso, meditabondo, con gli occhi abbassati verso il tabacco che si arrotolava in una cartina per farlo diventare sigaretta, con un timbro di voce totalmente basso e rivolto quasi solo a sé: più o meno. Circa.
Da scalpellino che sa quel che dice e quel che fa, guardava torvo se chiamato scultore o pensatore: bisogna avere coraggio per essere umili. Era la sua una ostinata e inquieta ricerca di quella «semplicità che è al cuore dell’estrema difficoltà».
Parlava della pietra mentre mi indicava gli interstizi, dove posava la punta dello scalpello e, seguendo l’attrazione fisica, deciso e morbido, come una pacca di incoraggiamento sulla spalla ad un amico, faceva cadere la piccola e pesante mazzuola sulla parte superiore appiattita dello scalpello. Il colpo secco si perdeva nel sorriso che disegnava sul suo volto la tenerezza della pietra. La pietra andava seguita nel suo viaggio interiore: non affrontata, fatta a pezzi.
La pietra andava percorsa. Era così che diventava tenera, morbida: amica. Non credo di aver mai visto un’opera di Cid che non rispettasse quello che per lui la pietra già aveva in sé: una sua vita, una sua forma. Tutte le forme che nascevano dal gesso o dalla creta dovevano contenere l’armonia, l’unità. Ma anche in quelle parole che posava una dopo l’altra a tecnica di merletto, senza però un procedere progressivo, lineare, cercava una unità. Quella parola che lui diceva essere un utensile per trivellare l’animo umano. Tutte le forme esistenti che tendevano alla compiutezza lo entusiasmavano: parlava di universalità, di unitarietà, di totalità perduta. Ma anche di metamorfosi, della necessità di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo e in special modo di quelli meno considerati. Di potenza delle figure umane: dell’importanza di incontrarle e di accoglierle in se stessi come creature vive, perché vivendo dentro di noi diventano la nostra resistenza alla morte. Ogni qualvolta terminava il modellato di una figura di gesso, e questo, raffreddandosi velocemente iniziava a far presa, prendeva la mia testa tra le sue mani nodose e la traeva a sfiorare con l’orecchio quell’impasto che aveva lavorato, dicendomi: «Ascolta, ascolta… geme… il gesso geme». Seppi, molti anni dopo, che per questo motivo alcuni giovani che lo frequentavano per imparare le tecniche del modellato, in tono affettuosamente canzonatorio lo avevano soprannominato ‘Gemito’.
Vedo ancora le sue mani granitiche possenti ma gentili e accoglienti, sempre senza guanti, convivere con il freddo più crudo, senza temerlo. Mani che diventavano, con poche parole aggiunte, la spiegazione universale della vita. Mani che si univano come quando si immergono per raccogliere acqua: oppure ruotate su se stesse senza staccarsi l’una dall’altra, come a proteggere un fuoco all’aperto. Accompagnavano questi gesti che disegnavano nello spazio un’immaginaria, strettissima ellisse, le sue parole del concavo e del convesso, del contenere e del contenersi. Come quando parlava degli esseri umani e dell’amore. Balenanti illuminazioni liriche sulla vita; sulle apparenze delle cose. Sul ‘bello’ inteso come ‘splendore del vero’.
Ma l’esistenza si trasformava anche in una metaforica immagine di una nave che solca il mare, dove però l’onda invece di ricomporsi perennemente, si richiude su se stessa e sulla vicenda umana. Nonostante questa terribile verità, per Cid senso e esistenza coincidevano con l’infinita condivisione di un’esperienza comune: la libertà. Nel raccontare procedeva ‘a stazioni’ come se fosse sempre in viaggio; esattamente nel modo in cui Spitzer definiva lo stile dell’epica. Per Cid forma e norma epiche coincidevano totalmente e l’esperienza resistenziale doveva, poteva, diventare appunto una possibilità in più per liberare… Era il tema poetico di un nuovo spazio e di un nuovo tempo «proprio in quanto è un inizio, l’uomo può dare inizio a cose nuove» dove umanità e libertà coincidono. «Libertà politica - o politica della libertà - è quella che consente alla libertà di ricominciare sempre di nuovo, di far insorgere nuove libertà, di liberare la libertà dovunque e per chiunque, possa nascere».3
Cid aveva il pregio di non cadere nella predica quando affrontava questi temi, perché la relazione con la realtà era sempre ben presente soprattutto attraverso le dure scelte della sua stessa esistenza. Lo sosteneva quell’inesauribile desiderio utopico di trovare comunque la forza che tiene insieme il mondo. Una profonda pietas accompagnava tutto il suo dire e tutto il suo fare. Una pietas che sentiva essere sempre più bandita dalle decisioni concrete del quotidiano, determinato oramai sempre di più da elementi tecnici e da quegli esseri umani che chiamava i banditori del nulla…
A quel bambino che ero nessuno aveva mai parlato di quelle cose e in quel modo. Nessuno si era mai messo all’ascolto delle vibrazioni del suo animo e aveva posto domande che riguardavano il suo umore e il suo stare al mondo.
Paragonato alla piccineria tignosa di quelli che erano stati i miei insegnanti di scuola, Cid era per me, a quell’età, il vero maestro. Al di là della speranza o della disperazione, della terribile consapevolezza della libertà che sbaglia, che i greci chiamavano tragedia, di cui naturalmente ebbi coscienza negli anni, intuivo in lui la volontà di non arrendersi al rischio della banalità del quotidiano e del riaffacciarsi, sotto altre spoglie, prima del qualunquismo e poi del fascismo. Ma anche una resistenza a tutto quello che era ufficiale o autoritario. Credo cercasse, nel fare artistico, un solitario modo salvifico, dopo il disincanto della politica. Senza mai perdere però la speranza della politica come coralità: progetto di molti. Le parole di Roland Barthes sono forse le più adatte a dire di quel suo stato dell’animo che percepivo: «Subisco senza adattarmi, persevero senza abituarmi: sempre sconsolato, mai scoraggiato…».
In lui si sentiva risuonare ancora quel clima e quel senso evocato da Luigi Meneghello: «Sentivamo la guerra come la crisi ultima, la prova che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l’educazione, la natura, la società». Invece tutto si era già normalizzato da tempo e aveva seppellito in fretta e furia quella che Cid chiamava l’epopea partigiana… un partigiano fa bene a tenere i suoi bagagli sempre pronti.
«Nell’Italia degli anni Cinquanta, egemonizzata dalla DC, tombe, cippi, lapidi, corpi, tutto quanto metteva in scena il ricordo dei morti della guerra partigiana veniva guardato con sospetto e imbarazzo. I corpi dei partigiani uccisi recuperati da Nicola alimentavano una memoria ‘separata’ e ‘altra’ rispetto a quella ufficiale; una memoria inquieta, carica di sofferenza e di frustrazione, minoritaria, più da sconfitti che da vincitori».[...]
da CID il partigiano fotografie di Danilo De Marco
ed. Menocchio