Parole

Danilo De Marco - L’affiches rouge, armata del crimine (2009)

«Nel mio film, il più delle volte ci sono degli estratti della voce di Philippe Henriot, noto collaborazionista, che parla dalla radio. Quello che dice diventa ancora più violento perchè non si vede la faccia di chi parla e il contenuto ci è come rivelato. Le sue parole sono orribili. In un tono enfatico e con una dizione pomposa diceva delle cose abiette: ma mi domando anche come la gente riusciva a digerire tali sequenze di insulsaggini. Anche se non è il cuore del film, questi resistenti presentati come l’Armée du crime sull’ Affiche Rouge, mi permettono di parlare delle tecniche di manipolazione dell’opinione. Da questi estratti che ho scelto si capisce come si può mentire su cos’è un immigrato, un capobanda ecc… Sono stato particolarmente colpito da questi testi che dicevano che gli attentati non nuocevano ai tedeschi, ma hai lavoratori francesi; che un attentato in un panificio toglieva il pane ai francesi e non hai soldati tedeschi. Sono metodi d’informazione che, tenendo conto delle differenti situazioni, sono ancora oggi perfettamente usate».
Il 21 febbraio 1944 i muri di Parigi sono invasi da 15.000 esemplari di manifesti rossi: danno l’impressione di grandi macchie di sangue che grondano dal muro. Dieci volti di uomini provati da mesi di interrogatori e torture, che non riescono però a spegnere totalmente un’espressione di fierezza nei loro occhi, sono inseriti in un grande triangolo. Sono tutti stranieri: rifugiati venuti dai quattro angoli d’Europa. E tutti giovani: dai 18 a 44 anni. In testa al manifesto, in grande, si legge: DEI LIBERATORI ! Sotto: La Liberazione! Da parte dell’armata del crimine. Il «capobanda» indicato con una freccia nera non è un resistente, non è un liberatore, ma un delinquente comune, a cui si imputano 56 attentati, 150 morti, 600 feriti:si chiama Missak Manouchian. Poche ore dopo nella località Mont Valérien vengono fucilati 22 «terroristi stranieri». Otto polacchi, cinque italiani, tre ungheresi, due armeni, uno spagnolo, una rumena (Olga Bancic la ventitreesima vittima, madre di un bambino in tenera età, dopo ulteriori maltrattamenti viene condannata per la seconda volta e decapitata il 10 maggio a Stuttgar). Tra di essi nove sono di origine ebrea e tutti sono comunisti o simpatizzanti. La storia del Gruppo Manouchian, conosciuta oramai con la denominazione di Affiche Rouge tratta da un poema scritto da Aragon nel 1955 - liberamente interpretato dall’ultima lettera che Manouchian scrisse a sua moglie Mélinée e musicato successivamente da Léo Ferré - in Italia non è conosciuta come dovrebbe. E di questi tempi, dove ogni motivo è buono per demonizzare lo straniero, sarebbe bene almeno ripensare questa nostra storia, la storia di un’Europa troppo sovente «smemoranda». Sono ancora le parole di Robert Guédiguian, regista del film, che ci fanno capire quanto importante rimane questo messaggio: «Ammiro la maniera in cui ognuno di loro ha giudicato quello che è accettabile o quello che non può più essere accettato…e fino a che punto siamo tutti messi alla prova e capaci di tollerare l’intollerabile». Missak Manouchian è nato in una famiglia di contadini armeni nel villaggio d’Adivam in Turchia. Perde il padre quando era ancora piccolissimo, con ogni probabilità ucciso dai militari turchi durante il genocidio armeno. Anche sua madre muore poco tempo dopo vittima della miseria estrema. Missak allora viene accolto assieme a suo fratello Karabet in un orfanotrofio del protettorato francese in Siria. Nel 1925 sbarca a Marsiglia dove lavora come falegname assieme al fratello: ma dopo poco tempo si trasferiscono a Parigi. Il fratello si ammala quasi subito dopo l’arrivo nella capitale mentre Missak riesce a trovare lavoro alla Citroen. Nel 1927 Karabet muore e Missak viene licenziato a causa della grande crisi economica degli inizi degli anni’30. Riesce a campare tra un arresto e l’altro, facendo vari lavori, tra cui anche il modello per degli artisti. Assieme al suo amico armeno Semma pubblica due riviste letterarie: Tchank (Impegno) e Machagouty (Cultura), dove vengono pubblicati degli articoli che riguardano la letteratura francese e armena, oltre che traduzioni in armeno di Baudelaire, Verlaine et Rimbaud. Dirige la rivista Zangou (Il corso d’acqua), dove pubblica anche dei suoi poemi, ed è in contatto con i più grandi poeti armeni: Avétik Issahakian et Archag Tchobanian. Missak e Semma si iscrivono alla Sorbona come liberi uditori e seguono corsi di letteratura, filosofia, storia ed economia politica.
Arsène Tchakarian, classe 1916 autore del libro Les Francs-Tireurs de l’Affiche rouge, e Henry Karayan, alias Paul Orsini, di pochi anni più giovane, sono i due superstiti del Gruppo Manouchian. Se la delicata vitalità e la lucidità intellettuale di Karayan sono messe in difficolta da una difficile articolazione alle gambe, probabilmente lascito dei campi di lavoro obbligatori di Loriol e Vernet dove incontrò «Gallo» Luigi Longo, a Tchakarian non manca nulla. A 94 anni sembra ancora un ragazzotto nell’aspetto e nella vivacità fisica incontenibile, ma anche nella verve, insidiosa e istrionesca. Parla correttamente oltre al francese, l’armeno, il turco, l’ebreo, il serbo e il russo. Ambedue, come la gran parte del Gruppo Manouchian, sono nati all’estero: Tchakarian a sud del Mediterraneo, a 70 chilometri da dove si trovano le rovine della città di Troia. Mentre Karayan a Istanbul che a lui piace chiamare Costantinopoli.
Hanry Karayan, nonostante la fragilità della memoria, della possibile perdita dei dettagli…sono passati almeno 70 anni, ricordi ancora il tuo primo incontro con Missak Manouchian?

K. Neppure se fossi totalmente rimbambito potrei dimenticare tale avvenimento della mia vita. Partecipavo attivamente agli incontri per l’emancipazione della cultura armena organizzati nella zona di Lyone, dove allora vivevo e dove dammo vita a un gruppo teatrale, una corale, una squadra di calcio e riuscimmo anche a proiettare il primo film armeno: Bebo.
Per questa mia attività fui arrestato per la prima volta, accusato di «dubbia moralità politica»: scontai un anno di prigione. Una sera ammalato, non potei parteciparvi: e quella sera c’era la visita di Missak Manouchian. Quando Manouchian seppe del perchè non ero presente, chiese a mio padre, anziano responsabile del HOC, (Comité de secours pour l’Arménie) di poter farmi visita. Io avevo 17 anni: lui 31. Venne a trovarmi e stette con me tutto un pomeriggio. Mi parlò di Aragon e di Éluard, che conosceva. Mi chiese della vita della gente del villaggio operaio di Décines… io allora gli raccontavo la dura vita degli operai della fabbrica tessile Gilet della città di Veulx-en-velin, dove lavoravano molti stranieri. Poi parlammo del processo a Leipzig accusato dell’incedio del Reichstag.
Ricordo che quando ci separammo mi vergognavo un po’ per averlo trattenuto così allungo. Ti sbagli, disse: negli incontri importanti, dove c’è troppa gente, sono fortunato se poi riesco ad avvicinare e parlare con due o tre persone.
Era un uomo molto intelligente ma molto timido. Sotto la pressione degli avvenimenti pensavo che non lo avrei mai più incontrato. Ci rincontrammo invece alcuni anni dopo a Parigi quando, con falsi documenti, rientrai dalla Germania assieme a Léo Kneler: era il marzo del ‘42 . Da quel momento più nulla ci divise e, fino al novembre ‘43 ci incontrammo quasi tutte le sere. La diffusione di volantini clandestini fu il nostro primo atto congiunto.
Ma improvvisamente un giorno Manouchian scomparve. Una sera che ci riunimmo tra amici per un incontro culturale, venni a sapere che era entrato in clandestinità, nella lotta armata - fino alla fine del ‘43 non era evidente una lotta armata nella regione parigina - .
Poco tempo dopo Manouchian mi viene a cercare e mi incorpora in una squadra di giovani sotto il suo comando: vedrai, mi disse, sono giovani ma molto capaci. Si trattava di Marcel Rayman e di Tamas Elek, quest’ultimo, giovane ebreo ungherese che, dopo poco tempo, raggiunse il gruppo di Joseph Boczov esperto nel far deragliare treni.
Quando Rayman fu arrestato e torturato non parlò. Per questo, con ogni probabilità, io sono ancora qui.

In quanti eravate nel gruppo Manouchian?
T. Tra quelli fissi posso dire che eravamo tra 38 e 40: un centinaio in tutto passarono per il gruppo. Alcuni li incontrammo una volta sola e poi scomparirono, per ovvie ragioni. All’inizio, nella primavera del 1942 eravamo tre o quattro ; poi sei-sette…ma dopo quindici giorni eravamo già diventati venti.
Al momento dell’arresto dei nostri compagni nel novembre del ‘43 - fu la polizia francese della Brigata speciale n°2 a farlo per i tedeschi-, ci furono circa 138 arresti, tra i quali appunto c’erano i nostri 23 compagni…ma non dovete pensare che eravamo degli eroi! Paura: quanta paura avevamo…abbiamo fatto quella scelta anche perchè molti di noi non avevano né famiglia né lavoro. Questo ci permetteva di avere meno responsabilità…e poi, a modo nostro, amavamo la Francia, il Paese dei Diritti dell’Uomo che ci aveva adottato. Marcati per l’idea della libertà e dell’uguaglianza diventava inevitabile, indiscutibile e naturale, fare quella scelta. Ma la paura era tanta: non dormivo la notte e quando dormivo per troppa stanchezza avevo gli incubi. Non mangiavo perchè non arrivavo a degluttire, tanto che alla fine della guerra pesavo non più di 40 chili.
K. Se vuoi sapere quanti stranieri c’erano…armeni, ebrei, polacchi, ungheresi, spagnoli, rumeni, italiani di cui ricordo con molto affetto Spartaco Fontanot - anche i suoi due fratelli furono fucilati durante la Resistenza - tutti reclutati dall’M.O.I. (Main d’Oeuvre Immigrée), che era stata creata dal partito comunista francese nel 1930 a causa di un’onda xenofoba, visto che agli stranieri era vietato fare politica. Allora il partito comunista li aveva riuniti per etnia, per gruppi di origini linguistiche e molti provenivano da esperienze di genocidi, da progrom… Reclutati dall’F.T.P.-M.O.I. (Francs Tireurs et Partisans), tutti hanno poi combattuto per la liberazione di Parigi, quando Jean Moulin ha creato il Consiglio Nazionale della Resistenza. Certo, e lo ricordo benissimo, eravamo lasciati sempre con pochissime armi…probabilmente volutamente, e con il ‘compito’ pericolosissimo, di cui solo più tardi ho avuto chiarezza…di rendere Parigi inospitale all’occupante.

Con L’Affiche Rouge si accusa la Resistenza di Terrorismo: e i terroristi sono in primo luogo ebrei, comunisti e stranieri … si è insistito molto sul termine «terroristi stranieri».
T. Si: dei métèques come si usa dire in termine più che spregiativo. Non esseri umani, ma porcheria. Ha ben scritto Aragon nel suo poema: Vous aviez vos portraits sur les murs de nos villes / Noirs de barbe et de nuit hirsutes menaçants / L’affiche qui semblait une tache de sang/ Parce qu’à prononcer vos noms sont difficiles / Y cherchait un effet de peur sur les passants
I Tedeschi e Vichy hanno voluto trasformare il processo in un’azione di propaganda contro la Resistenza composta solo da stranieri: da «terroristi stranieri». Ma gli si è rivoltato contro e ben presto i parigini che non sono idioti, hanno compreso che invece eravamo dei patrioti. E questo ha mosso un gran numero di giovani a sostenere e rilanciare la Resistenza.
Anche subito dopo la fine della guerra e, ancora continua, il termine terrorismo viene usato in tutto il mondo per screditare chi difende il proprio paese. All’inizio di Israele quando Ben Gurion si oppeneva agli inglesi era accusato di essere un terrorista. Io stesso in Israele, subito dopo la liberazione della Francia, facevo parte di un gruppo d’aiuto non combattente. E la resistenza algerina poi… che ha combattuto contro la Francia: per citare solo alcuni esempi. Io dico che chi combatte per difendere il proprio paese, per difendere la sua terra assieme ad un ideale di giustizia non è un terrorista ma un combattente della libertà. E noi stranieri in Francia abbiamo voluto dimostrare che la Resistenza quando è giusta può e deve non avere ‘confini’. Una Resistenza composta anche da ‘stranieri’ allora sia sempre la benvenuta.
K. I terroristi erano loro, i tedeschi: i nazisti. Noi non abbiamo mai ucciso donne e bambini. Io ho comandato l’équipe speciale del gruppo, e nel momento in cui dovevamo lanciare una bomba - ricordo perfettamente i mazzi di fiori lanciati da Léo Kneler con dentro la granata - quando avevamo d’avanti il nostro importante obiettivo…allora se c’erano altre persone, donne o bambini… nessuno agiva: in questi frangenti nessuno di noi ha mai lanciato la granata.
La strategia di Manouchian era chiara: evitare tutti gli errori possibili e vittime innocenti assieme al rifiuto totale di ogni azione suicida. Gli era cara la vita di tutti.
Quando ebbe chiaro che eravamo stati traditi e denunciati - da quel Davidowitch di cui Manouchian non si era mai fidato, ma voluto da Roger della direzione del M.O.I.- chiese di sospendere le operazioni per non mettere a rischio la vita dei compagni. Ma ci fu il parere totalmente contrario della direzione dell’M.O.I. Davanti a tanta incoscienza Manouchian decise di contattare direttamente lo stato maggiore dell’F.T.P. e diede ugualmente l’ordine di dispersione. Era il 1 novembre: ma era troppo tardi: eravamo gà stati pedinati e individuati.

T. Si hai ragione: essere stati liberatori vuol dire aver combattuto per una causa…e non serve aggiungere molte parole. Insomma come affermava Manouchian «assassinare gli assassini». Era l’unica cosa che restava da fare di fronte a tanta barbarie. Chi vuole capire capisca! Colpivamo bersagli precisi. Come l’esecuzione da parte di Marcel Rayman, Léo Kneler e Celestino Alfonso, il 28 settembre del 1943 del generale Julius Ritter, uno dei grandi responsabili della mobilitazione obbligatoria della mano d’opera straniera nell’Europa occupata dai nazisti. Fu un gran colpo: tutta Parigi ne fu scossa. Piacevolmente scossa.

K. L’esecuzione del generale Ritter fu una grande vittoria sulla messa in schiavitù di 600.000 operai. Agivamo una volta ogni due giorni circa…e con Arsène Tchakarian ricordo bene il colpo messo a segno il 25 agosto a Boulogne-Billancourt assieme anche a Arpène Tavitian e Diran Vosguerischian. Quest’ultimo con grande sangue freddo, attraversando la strada riuscì a far rallentare il camion zeppo di militari tedeschi, aggirarlo e gettarci dentro una granata.  Ma la cosa che mi fa sorridere ogni volta che ricordo questo avvenimento - il mio compito era quello di proteggere Vosguerischian e quindi gli facevo da palo all’angolo della strada - è la granata a cui avevo tolto la sicura per allontanare due testardi poliziotti francesi che insistevano per vedere i mie documenti nonostante continuassi a ripetere loro di allontanarsi, perchè eravamo della Resistenza. Rimasero a bocca aperta, impallidirono e si diedero alla fuga solo qualche decina di secondi prima che il camion saltasse in aria. A lavoro eseguito inforcai con una mano sola la bicicletta seguendo Tavitian che mi precedeva, sempre tenendo ben stretta la granata con l’altra mano. Quando raggiungemmo un luogo sicuro, depositammo le biciclette presso una famiglia…e tutti alla ricerca di un chiodo per sostituire il mio dito che si stava anchilosando. In quella famiglia che ci diede rifugio incontrai per la prima volta quella che poi diventerà mia moglie. Ancora alle volte serpeggia nell’aria la teoria che il Partito comunista francese vi abbia venduto per poter poi, a guerra finita, aumentare il suo potenziale per la formazione del futuro governo di Liberazione.

K. Quando Mitterand è diventato Presidente, c’è stato grande ‘traffico’ sull’Affiche Rouge: mai il discredito raggiunse toni talmente virulenti…in primo luogo dagli storici vicino al Partito Socialista. Per questo rifiutai l’onorificenza della Legion D’Onore assegnatami da Mitterand. Sarebbe stato un tradimento per i miei morti. Anche il mio amico Robert Guédiguian dice che negli anni ‘80 c’è stata una rottura nella trasmissione di questa storia. C’era ancora la Guerra fredda e allora si cercava di demolire il Partito Comunista: ricordo perfettamente l’affermazione di Mitterand ‘riduciamo il PC al 3%’. Come se il Partito comunista di quest’epoca, gli anni ‘80, fosse lo stesso dei tempi di Stalin…capisci? Ma quei comunisti armeni, ebrei, polacchi, italiani erano una generazione particolare, venivamo da esperienze terribili…mi capisci? Finiamola con questa storia: siamo stati traditi dall’interno. Su questo nessuno può più aver dubbi. Johesp Davidowitch che ci denunciò era un infiltrato: per questo poi fu rilasciato. Manouchian nell’ultima lettera a sua moglie scrisse di perdonare tutti per quello che stavano facendo, ma non al traditore che per salvare la sua pelle ci ha venduti.

Quando si parla di Manouchian si fa riferimento unicamente alla Resistenza e alla lotta armata. Ma era anche un poeta, un intellettuale….
K. Assolutamente. Non ho mai cessato di ricordare e parlare di Manouchian intellettuale e poeta. La sua timidezza e la sua ferrea volontà di occuparsi della Resistenza e della militanza in primo luogo, poteva far sembrare che non avesse altri interessi…invece il suo essere rivoluzionario, il suo essere poeta e anche uomo che amava il piacere erano in lui una cosa sola. Ventiquattrore su ventiquattro. Certamente poeta lo è stato nel senso più vero di questo termine e la sua vita è stata il laboratorio della sua stessa opera. La sua morte possiamo ricordarla come una insegnamento… più profondo di una lezione di etica. Era un uomo che non riusciva a concepire l’odio. Come dimenticare quelle immagini pochi istanti prima di essere fucilato mentre parla ai suoi compagni sorridendo. Si volta verso la telecamera nazista e sorride. Dove può un’uomo trovare tanta forza per sorriderci…a noi ma anche a tutti quelli che verranno dopo di noi. Anche se la sua vita, la sua morte sono belle come una tragedia, nulla ha potuto consolarci.
Certo posso dire con certezza che il gruppo Manouchian è stato ed è l’incarnazione di un’Europa che abbiamo sognato ma che non c’è!