Se immediatamente dopo il flagello Tsunami una spontanea solidarietà era sorta tra l’LTTE, le Tigri per la liberazione dell’Eelam Tamil (il 18% della popolazione di religione induista) che lottano da più di trentanni per l’autodeterminazione del Nord-Est dello Sri Lanka e il governo di Colombo, a sei mesi di distanza la situazione è di rinnovata tensione. I separatisti accusano il governo di non aver fatto giungere nessun aiuto al nord-est del paese che controllano.
Thevarajah è uno dei responsabili di TRO (Tamil Rehabilitation Organisation) di Batticaloa, ONG tutta tamil che fa da vetrina umanitaria alle Tigri. «Il governo non ci ha aiutato in nulla. Ce la siamo cavata da soli con gli aiuti che riceviamo direttamente. Hanno cercato invece di dividere la gente, musulmani e induisti che da anni vivono assieme, con il pretesto di possibili violenze contro i musulmani da parte delle Tigri. Il ministro voleva che la Croce Rossa Saudita si occupasse del progetto per i musulmani. Ma la gente è rimasta unita».
Le due parti sembrano utilizzare la catastrofe per i loro fini: le Tigri vorrebbero tentare di recuperare la penisola di Jaffna, mentre Colombo rinforzarsi all’est imponendo nuove zone di sicurezza accanto alla costa. Pochi giorni dopo la nostra visita una granata sarà lanciata nella sede di TRO: due i feriti gravi.
A Poonochimunai, pochi chilometri a sud di Batticaloa, Kachchi Mohamed pescatore ha perso tutto: «TRO ha costruito in breve tempo il nostro riparo temporaneo, ma a fine agosto scade il contratto tra il proprietario delle terre e lo Stato. E ancora non sappiamo dove andremo.
Abbiamo diritto a dei buoni di 335 rupie (tre euro) a settimana per famiglia, da spendere in negozi convenzionati per riso lenticchie e farina: ma con i buoni tutto è più caro. Non ho più la barca e non lavoro da sei mesi. Qui altre 135 famiglie sono nelle stesse condizioni».
A Chenkaladi, 20 chilometri a nord di Batticaloa, si trova la frontiera con uno dei territori controllato dall’LTTE. Mi accompagna Amarl, 42 anni. Ex ribelle. Da 15 anni vive a Parigi e fa il cuoco in una brasserie di Montmartre. La sua seconda madre è stata uccisa sotto i suoi occhi. «I militari vennero in casa. Mi arrestarono…ero ancora ragazzino e distribuivo solo volantini. Quando mi liberarono raggiunsi la guerriglia. Mia sorella voleva seguirmi, ma riuscii a dissuaderla. Ne bastava uno in famiglia a fare la guerra. Si è convertita al cristianesimo e ora fa la suora nelle Filippine».
Al di là della frontiera in un paesaggio di risaie di un verde assordante il traffico scompare: solo furgoni collettivi e bus. Ai lati della strada la memoria della guerra: ruderi di case inghiottiti dalla natura, campi minati. Un po’ dappertutto monumenti alla gloria delle Tigri martiri e ai loro giovanissimi kamikaze vestiti di nero.
Suresh 35 anni circa è il vice comandante del territorio. Fissiamo un’uscita per il giorno dopo: «ma non troppo di buon’ora, dice. Problemi di sicurezza».Un anno fa l’allora comandante della zona , Karuna, si staccò dall’ELLT con una cinquantina d’uomini… «da tempo Karuna- continua Suresh- era stato invitato dal nostro leader Vellupilai Prabahkaran ad allontanarsi dall’organizzazione, mi spiega Banu, ora comandante di Batticaloa. Agiva di testa sua, obbligava minorenni alla guerra. Si imponeva con la forza alla popolazione. Ora lavora per i militari. Ci ha colpito più volte. Ha massacrato nel sonno dei giovani handicappati da ferite di guerra. C’è sicuramente la sua mano anche dietro l’assassinio del giornalista tamil Dharmaratnam Sivaram nell’aprile scorso, che nessuno voleva più vivo, nemmeno l’ordine dei giornalisti cingalesi: una voce che disturbava».
Il mattino dopo Suresh vuole accompagnarmi: quattro giovanissimi ragazzi armati come scorta. Percorriamo un territorio devastato, per molta parte ancora spopolato. Non è da molto che la gente ha iniziato a ritornare. Durante la seconda parte degli anni ‘80, l’esercito cingalese ha distrutto e bruciato tutto quello che era tamil. Lungo la strada un numero imprecisato di cimiteri delle Tigri ribelli: in ognuno 400, 600, 800 cumuli di terra con una semplice tavoletta di legno con il solo pseudonimo di battaglia e la data di morte. Quella di nascita ci è risparmiata. «In quegli anni essere giovani di età e di sesso maschile era motivo sufficente per essere eliminato», ci ricorda Sunila Abeyasakera, attivista dei diritti umani.
Pittaigal è il nome che danno ai giovani combattenti ribelli. La ragazze si riconoscono dal modo in cui si vestono: una larga camicia, una cintura nera ai fianchi, un pantalone abbondante, treccia raccolta a crocchia dietro la testa. Le loro famiglie vivono tutte nella zona governativa. Se ne sono andate prima che i venti di guerra portino i militari ad un reclutamento forzato. Sono lí volontariamente, mi dicono, senza nessun stipendio. Dopo avermi scritto i loro nomi su un foglio chiedo l’età: la cosa non era prevista. Una più anziana, forse 22 anni, si accosta velocemente ad una compagna e gli sussurra qualcosa …Tamilwani mi dirà avere già… 18 anni.
A Trincomalee, porto strategico sull’oceano indiano, vi è installata una enorme base navale governativa. Ogni angolo della città è guardato: ronde militari, check-points, fili spinati, garitte di sacchi di sabbia. Fino all’inizio degli anni ‘90 la maggioranza della popolazione era tamil: ma la guerra, l’emigrazione e le numerosissime colonie cingalesi installatesi hanno complicato la situazione. Scioperi organizzati dai tamil, scontri, morti settimanali a colpi di granate, sono il risultato di una guerra per il potere nascosta dietro rivalità religiose.
Una statua del Budda - il buddismo è religione di stato- eretta da poco nel centro cittadino e difesa dai militari, non ha fatto che peggiorare la situazione.
Dall’altra parte del golfo ad un’ora di traghetto Mutur. La città a grande maggioranza musulmana, vive una situazione di tensione e povertà. Qui la gente è accusata di «aver approfittato della guerra e di informare l’esercito». Non è raro che qualcuno venga freddato nel bel mezzo della strada in pieno giorno. Alle porte della città lungo il litorale-est, a Sampur, le Tigri controllano il territorio. Solo persone conosciute possono passare. Amarl mi consiglia la bicicletta. Dopo una prima, prolungata indecisione, le Tigri appostate alla frontiera ci permettono di proseguire. Mezz’ora di pedalata sotto un sole che picchia duro. Ecco l’ufficio politico dei combattenti delle Tigri Tamil.
Evilam 40 anni circa ne è il responsabile: «…il problema del Budda non è solo di Trinco. Anche in altri villaggi, attorno alla città, ne hanno costruiti. E’il primo passo. Poi arrivano i monaci buddisti e le colonie di famiglie cingalesi povere. Inevitabile l’arrivo dell’esercito per la loro sicurezza. Così nascono le colonie». La fascia di territorio che qui controllano è proprio sul mare: «…la gente vive nelle costruzioni provvisorie già da tempo e nessun problema neppure per dove costruire gli alloggi definitivi. Il problema è l’embargo: i militari non permettono con facilità l’entrata di sacchi di cemento o altri materiali per la ricostruzione. Anche le ONG straniere devono sottostarvi. Tassano qualsiasi cosa: per 4 litri di benzina bisogna pagare 150 rupie…”
Sushila e Rada sono tamil e lavorano con una ONG italiana a Mutur. Sushila ha abbandonato il paese andando a lavorare nel Kwuait nel 1984, quando sono cominciate le violenze. E’ ritornata con suo figlio dopo il ‘cessate il fuoco’. «La situazione si sta nuovamente deteriorando e in caso di guerra i militari ci portano via i figli». Sushila non nasconde una simpatia per le Tigri: «con noi sono sempre stati buoni…e se mio figlio fosse costretto alla guerra…allora preferisco con loro». A Rada i militari hanno ucciso il padre, il marito, due fratelli e una sorella.
A sei mesi dallo Tsunami a Mutur c’è ancora molta gente nelle tende. «La situazione postcataclisma ha una dimensione di forte ritardo, mi dice una cooperante italiana. Dopo l’intervento efficente della prima emergenza da parte del Dipartimento della Protezione Civile, le cose si sono ingarbugliate. Progetti che rientravano nell’emergenza rimasti in attesa fino a fine marzo…il progetto di un prototipo per tutte le temporary shelter proposto dalla Protezione Civile viene consegnato dopo due mesi. Ma è sottodimensionato e quindi non operabile». Sbotta in uno sfogo: «…della merda comune che riusciamo ad incoraggiare con le tangenti locali…di chi dorme ancora nelle tende e non prende un centesimo e dice grazie perchè non sa fare di più…». Soprattutto al sud è successo che beneficiari «si sono stancati di attendere e si sono arrangiati da soli». Non per ultima la concorrenza tra ONG, come quella più sfacciata della nordamericana World Vision, che non si è fatta scrupoli per «rubare beneficiari in attesa» costruendo a pochi metri da un progetto a Mutue, in tempi da cottimo, delle scatole di alluminio. Dei veri forni crematori.
Anche i pescatori di Mutur sono in attesa. La distanza di sicurezza per essere rialloggiati e di 200 metri dal mare. «Ci hanno proposto dei terreni a quattro chilometri dalla costa. Dicono
che qui non ci sono terre disponibili… prenderemo il tuk tuk (il taxi) per andare al lavoro», esclama con un sorriso amaro un pescatore.
A Trinco incontro Franco Perlotto, uno dei responsabili della Protezione Civile che a denti stretti conferma un «ritardo generalizzato». E a detta di tutti ci sono anche troppi soldi: «…se i soldi che abbiamo fossero dello stato, potremmo restituirli. Ma come fare con dei donors? Dobbiamo identificare altri bisogni… speriamo in un miracolo». E i cooperanti italiani a fine giugno sono costretti ancora a rinnovare il visto ogni mese: ed è ancora un visto turistico.
Poco a nord di Vavuniya c’è la nuova frontiera con il Vanni, la regione controllata dalle Tigri che divide il paese in due. Alla frontiera i militari svuotano completamente i camion: temono il traffico d’armi «sotto spoglie umanitarie» dicono . Ma anche noci di cocco, ananas, sacchi di cemento… tutto viene scaricato pezzo per pezzo e poi ricaricato. A mano naturalmente e dagli stessi autisti. La regione del Vanni è rimasta per lunghi anni completamente isolata. Nessun giornalista ha potuto metterci il naso. É il direttore della nuova rete televisiva in lingua tamil che trasmette un’ora al giorno dal Vanni verso il mondo, ma non nello Sri- Lanka, che mi mostra una grande lapide con 54 fotografie: «sono giornalisti, fotografi e cameramen tamil rimasti uccisi in questi anni di guerra». Tutti giovanissimi.
Il comandante Banu è pessimista per quanto riguarda la situazione attuale: «il governo di Colombo aspetta solo che noi facciamo un passo falso per ricominciare la guerra. Durante il cessate il fuoco abbiamo avuto più di 130 morti, molte volte colpiti a freddo per le strade, come i due combattenti disarmati freddati ieri ad Ampara, nella regione di Batticaloa. Ma a Colombo hanno sempre la scusa pronta: faide interne alle Tigri».
Kilinocichi distrutta dai bombardamenti nel 1996 e liberata dalle Tigri nel 1999 è per ora la capitale. La città cerca di darsi un aspetto formale: nuovi uffici amministrativi e politici, scuole, ristoranti, una polizia tutta tamil, vigili urbani. Ma al di fuori di quest’ultimi, pagati direttamente dall’amministrazione ribelle, tutti i funzionari pubblici sono ancora stipendiati da Colombo. «Se non ci pagassero più, mi dice un insegnante che a scuola insegna solo in lingua tamil, la separazione dallo stato sri-lankese sarebbe cosa fatta».
Attorno alla città e per quasi tutta la strada che porta verso la frontiera con la penisola di Jaffna, mine dappertutto. Impressionante il numero di giovani tamil con una brutta protesi per camminare. La chiamano ironicamente‘colombella bianca’.
Jaffna, l’antica capitale Tamil, è ancora un campo di rovine e di mine. Fu il comandante Banu, oggi poco più che quarantenne a dare l’assalto definitivo, nel 1991, al castello di Jaffna. Sotto controllo ribelle la città fu bombardata per quattro anni, fino all’esodo di 500.000 persone nell’ottobre del 1995. «Siamo sopravissuti alla colonizzazione portoghese, olandese e inglese per 450 anni, ma abbiamo dovuto fuggire l’esercito cingalese». Oggi Jaffna è pressochè sotto assedio: strade interrotte dai due lati sotto controllo militare. Case ed edifici pubblici trasformati in caserme. Il lungo il mare of limite. Un terzo della penisola è zona di estrema sicurezza. E la popolazione considera ‘i cingalesi’ come forza d’occupazione straniera.
A novembre viene eletto presidente della Repubblica Mahinda Rajapakse, Partito della libertà e primo ministro in carica, sostenuto dal partito comunista nazionalista JPV, alleato in funzione anti-tamil con l’JUH, l’ala più feroce del nazionalismo buddista.
Il candidato dell’opposizione R. Wickremasinghe, ex-primo-ministro, che contava sul voto della popolazione Tamil, viene accusato di non aver rispettato i patti al tempo del suo governo dall’ala politica delle Tigri. A Jaffna l’astensionismo è totale: al voto si reca solo lo 0,01%. Poche settimane dopo Jafnna si ritova nell’occhio del ciclone: attentati ai trasporti militari si moltiplicano con decine e decine di morti tra l’esercito. Il 20 dicembre a Batticaloa viene freddato in una chiesa cattolica un parlamentare vicino alle Tigri.
Con la nomina a presidente di Rajapakse la situazione tende al peggio. Dopo gli attacchi ai camion militari, il governo non trova di meglio che organizzare squadre speciali in borghese che si mimetizzano in mezzo alla popolazione civile rendendo impossibile la loro identificazione e possibile ogni confusione. L’esercito abbandona il trasporto con i propri mezzi, troppo identificabili, e i militari viaggiano con i trasporti pubblici assieme alla popolazione civile. Tutto così diventa possibile: è il caos. Le squadre speciali sparano a vista su chiunque, appena hanno il sentore che possa accadere qualcosa.
L’organizzazione dei diritti umani (NESOHR) denuncia l’assassinio o la scomparsa di almeno 62 persone civili tamil, eseguiti dalle forze di sicurezza dello Sri Lanka e dai paramilitari .
Le vittime sono principalmente piccoli proprietari di imprese che con ogni probabilità finanziano le Tigri Tamil.
Trincomale si sveglia ogni giorno con dei morti amazzati: durante la prima settimana di aprile 41 le vittime. Ma è il 12 aprile, al mercato vegetale dopo lo scoppio di una bomba con 5 morti, che la situazione degenera nuovamente. Vengono attaccati da uomini in borghese, non ben identificati, decine di negozi e centinaia di abitazioni tamil e dati alle fiamme, mentre «le forze di sicurezza cingalesi stavano a guardare incapaci di impedire le violenze».
Almeno 3000 tamil cercano rifugio nelle chiese e nelle scuole: chi può raggiunge il territorio controllato dalle Tigri. E’ di nuovo l’inizio di un esodo?
L’ombra dei massacri anti-tamil dell’inizio degli anni ‘80 getta lo sgomento tra la popolazione. Quella volta la scintilla che provocò il disastro della guerra fu l’uccisione di tredici soldati cingalesi e il conseguente progrom di 600 tamil. Il governo di Colombo attuò una sanguinante repressione che ebbe il volto della pulizia etnica: 65.000 tamil abbandonarono l’isola per rifugiarsi in India mentre si aggravò anche il conflitto con la minoranza musulmana.
Un’offensiva militare chiamata «guerra per la pace» dilagò nei territori tamil: nell’82 a Jaffna i militari incendiano la grande Biblioteca pubblica, distrussero tutti i monumenti storici tamil, uccisero e violentarono donne… Le strategie dei separatisti furono altrettanto spietate: numerosi attentati, anche suicidi (il primo kamikaze è tamil nell’87) seminando panico nella capitale Colombo.
Anche l’India si fece parte in causa inviando una forza di pace che poi non vorrà nessuno (si suppone che Rajiv Gandhi sia stato assassinato nel 1991 con la complicità dell’LTTE).
Ora in tutto il nord è ricomincata la violenza: morti, saccheggi, incendi.
Sarà vero che anche i civili, il popolino sta aggredendo i tamil? Sarà vero che questa guerra etnica e civile non potrà mai avere fine? Sarà vero che nessuno vuole la pace? Oltre 70.000 morti non sono già un prezzo troppo alto per chiunque?
giugno luglio 2005