Visto che il suo lavoro di fotografo ha a che fare sempre con il senso sociale e vorrei dire anche politico delle cose, pensa dunque che il valore di testimonianza dell’immagine fotografica sia allora più importante del suo valore estetico ?
Non ho mai pensato che queste due condizioni di valore possano essere separate. Il termine estetica, che ci viene lasciato per la prima volta dai greci, è composto da due altre parole: sensazione e percezione. La testimonianza può avvenire solo in presenza di sensazione e percezione: insomma di un corpo presente con i propri sensi. Tutti i propri sensi: anche quello intellettivo, se si può dire senso… dell’intelletto. Estetica e testimonianza sono quindi un solo corpo e sono la correlazione di scelte, di fatti personali, di esperienze. E come in tutte le esperienze non può esserci una risposta indiretta, che è insipida e non ha nessun sapore…come neppure un mero elenco dei vari modi e delle svariate tecniche possibili del fotografare. Tentare di rispondere alla domanda allora non può che essere in presa diretta, soggettiva, per chi, della fotografia, ha fatto anche una propria ragione di vita, un mezzo per esprimersi, e solo dopo, pur se necessario, un mezzo per campare.
In termini estetico-filosofici, ma naturalmente senza prendersi troppo seriosamente, direi che una parola come «Weltanschaung» visione del mondo - una visione metamorfizzante e non cristalizzata naturalmente - potrebbe andare bene per la nostra chiacchiera. Una visione del mondo che rifiuta di accettare le cose come sono e cerca di lottare per le cose come dovrebbero essere. Sapere che il mondo, come diceva Brecth, ha bisogno di essere cambiato e riscattato. Ecco allora che testimonianza ed estetica coincidono, e l’esperienza ne diventa la pasta che le dà forma.
Testimonianza è un attraversamento, una durata: non credo sia, come invece affermano anche alcuni grandi maestri della fotografia , trovarsi «al posto giusto nel momento giusto» e, a risultato ottenuto andarsene, come potrebbe fare uno scippatore; oppure dare la caccia a qualche immagine shockante come accade, per esempio, a molti fotografi di guerra o ad altri specialisti dei cataclismi naturali: immagini che diventano buone come spettacolo e redditizio per un mercato che non richiede la lentezza del tempo della riflessione, ma all’incontrario la velocità del consumo e dell’incasso immediato. Questo fagocita la realtà, invece di cercare il cadenzare dei fatti per comprenderli: farli propri.
Testimonianza diventa, è ‘fatto’ che ci riguarda: tutti. Che mi riguarda perchè è la ragione del mio essere al mondo…e di quel mondo sono anch’io, ora , in qualche modo, responsabile. Testimone.
Testimonianza non è neppure cogliere -oh Goethe- l’attimo fuggente, stereotipo diventato popolare con l’irrefrenabile sviluppo della fotografia nell’epoca della riproducibilità tecnica, e divenuta inverosimile, ossessiva quanto inquietante mania dei babbei.
Un’immagine può voler dire «massima realtà» ma anche «massima irrealtà», e per questo l’obiettivo non deve ingoiare quello che inquadra e digerirlo per espellerlo…prima possibile.
L’esperienza della testimonianza a volte ci mette di fronte anche a crudeltà e disincanti: che possono diventare la malinconica consapevolezza della fragilità della condizione umana - un boccone a volte molto amaro - ma che deve tentare di correggersi in elemento fondamentale della speranza.
L’attesa, la relazione, l’empatia, l’immedesimarsi hanno bisogno di tempo:di durata. Sono sensazioni e percezioni che bisogna fare proprie e portarle dentro; il che significa aver vissuto, aver penato, aver resistito. Affrontare i problemi vitali sepolti dietro la forma.
Per questo credo che la testimonianza assieme alla foto esteticamente riuscita espressa anche attraverso uno stile, possano essere lo specchio di quanto sia invece «stupida e arrogante e frivola l’eleganza priva della sua anima». E quando non si bara con se stessi lascia qualcosa: tracce. Memoria.
Ma anche qui -Benjamin dixit - che cos’è memoria senza l’esperienza! E la storia è senza fine…altro che fine della storia di cui ciarlano alcuni filosofi.
Quando Caravaggio dipinse la Morte della Madonna commissionata dal clero di Santa Maria della Scala, non esitò a raffigurare la Madonna come una «donna morta gonfia» prostituta ritrovata annegata. Dipinto di una grande testimonianza sociale assieme ad una impressionante percezione e sensazione estetica. Dipinto che fu rifiutato dal clero, perchè la Chiesa non poteva accettare il farsi presente di Dio nei fatti della vita quotidiana.
Scrive Giulio Carlo Argan «… nel Caravaggio il valore dell’arte non è nella nobiltà dei contenuti e delle forme, ma nel fervore del fare, nel modo con cui l’azione del dipingere realizza l’intenzionalità, l’impegno morale dell’artista. Ciò che si trova nell’opera non è altro che un tempo, un frammento della sua esistenza».
Nelle sue fotografie la presenza del volto, e di conseguenza dello sguardo è quasi sempre fondamentale. Che lettura può darci di questo suo fare?
L’unica parte del corpo umano che rimane, necessariamente quasi sempre allo scoperto, è il volto. Ed è grazie a quella nudità che gli esseri umani si lanciano i primi segnali; che iniziano il loro gioco d’avvicinamento. Da quella nudità si possono quasi subito intuire simpatie o antipatie, accoglienza o diffidenza, disponibilità o rigetto. Un volto, uno sguardo, e anche un gesto, possono rivelare il modo in cui un uomo attraversa l’esistenza. Percezioni e sensazioni si rimettono in gioco.
Mi ha sempre colpito molto la pittura frontale delle antiche icone, forse perchè quando ero ragazzo, un docente universitario di letteratura russa, Alessandro Ivanov, nato in Russia da madre friulana - il Friuli è la regione d’Italia dove sono nato - ma trascinato in Italia durante la rivoluzione bolscevica in tenera età, me ne cominciò a parlare e a disvelarmi gli arcani segreti durante i nostri incontri casuali nelle osterie della città di Udine.
Mi parlava di tempo e spazio; di ‘profondità’ che erano presenti nell’icona anche se non visibili, non potendo essere rappresentabili. Erano un tempo e uno spazio di un mondo possibile solo come progetto divino, immutabile, definito e definitivo. Tolta ogni opportunità all’intervento umano. I contorni delle figure nettamente marcati, immagini senza fondo, appiattite sull’unico piano superficie concesso e raffiguranti sempre i principali protagonisti della tradizione religiosa cristiana.
In termini fotografici mi verrebbe da dire… con la messa a fuoco sull’unico piano-superfice possibile.
Altro incontro in quei primi anni ‘70, fu lo splendido film di Andrej Tarkovskij sulla storia di Andrej Rublëv, il pittore di icone del 15° secolo.
Anche se giovanissimo, lavoravo già in un laboratorio fotografico come stampatore, e la mia formazione fotografica era in pieno fermento. E’ probabile che le descrizioni del professore e poi quella pellicola vista e rivista più volte, abbiano lasciato in me tracce così forti - e l’età era quella giusta - tanto da influenzare il mio modo di fotografare fino ad oggi, anche durante il lavoro di reportage.
E’ evidente che l’occhio che guarda appiattisce, e il senso delle icone ne seguiva appunto quella visione. Mentre è il cervello che vede e ricostruisce il volume, che cerca la profondità. E che cosa sono assieme profondità e volume, ma anche superficie naturalmente, se non quello che si vive? Esperienza dunque.
Dal primo incontro con quelle pitture cristallizzate, congelate solo su un piano della verità, che coincideva con la mia prima esperienza fotografica, di tempo ne è passato e dal pozzo della memoria sorgono certamente ancora quelle immagini: ma se è rimasto qualcosa rispetto alla composizione dell’immagine, alla frontalità; all’interesse per il volto e la figura umana, certo di piani da leggere ce n’è più d’uno. Nessuna verità assoluta. Nessun piano della verità.
Ecco allora attorno a quel centro che rimane un volto, una figura, sorgere dettagli non meno importanti: badile, zappa, macete, mani, nocche di mani, sombreri, coperte, ciotole, capanne, neonati, cani…e anche il paesaggio è a suo modo abbastanza presente.
Le «espressioni della felicità o della malinconia non solo segnano un viso ma sono il viso di quella persona» sono la somma di tutte le loro età, degli stati d’animo, dello spazio e del tempo della loro vita. Per essere protagonisti della loro vicenda umana, per cambiare una condizione non immutabile, che non può isolare gli eventi dalle loro cause, tagliare le radici dai fatti.
«Quando la carne addosso é un panno stretto che riveste lo scheletro di giustezza, quando il vecchio sarto dei corpi lavora in economia e calza facce con la pelle tesa: allora quelle facce raccontano da mute, da ferme», dice lo scrittore Erri De Luca di queste fotografie.
Come le icone religiose; da mute, da ferme. Ma consapevoli. Non siamo noi a guardare una bella fotografia, ma sono loro a guardarci. E’ così che quei volti diventano rappresentazione delle emozioni, delle mie emozioni. Forse un modo per dare forma al mio pensiero. Forse.
Vorrei spendere giusto ancora due parole su un altro lavoro che ha che fare con il volto, questa volta con volti tutti segnati dal tempo, e che si è materializzato in questi ultimi quattro anni.
Sono i volti dei partigiani italiani e francesi, - da voi si direbbe guerriglieri - che ho fotografato a tanti anni di distanza dalla Liberazione d’Europa dal nazifascismo.
«Zona infestata dalle bande -strada Cividale Udine- può essere soltanto percorsa con la scorta» stava scritto lungo le strade d’Europa di queste facce ma… con 65 anni di meno addosso.
L’inquadratura ripetitiva e chiusa, come si usa con le foto segnaletiche dei delinquenti, dei banditi, tutta concentrata sul volto: meglio ancora sugli occhi.
Gli occhi, unico punto di messa a fuoco, unico centro rimasto, forse, di un tempo salvato.
Ma la memoria sembra scivolare, scappare da quegli occhi sui piani del volto che via via si sfocano, e lo spazio, quello spazio della vita per cui avevano combattuto, cancellato.
Con la perdita della memoria rischiamo di perdere la continuità di significato e giudizio.
Che opportunità offre all’immagine fotografica il solo bianco e nero in un mondo dove le immagine in generale sono prevalentemente a colori?
Qualcuno ha scritto che utilizzo un linguaggio fotografico «programmaticamente arcaico», probabilmente perchè uso solo il bianco e nero e per di più in un certo modo.
A questa osservazione aggiungerei che io penso in bianco e nero. Tutte le immagini che mi si offrono, anche nel sogno, sono in bianco e nero… frutto forse di una scomposizione chimica di una linguaggio naturale. E in questo bianco e nero è come se tutto arrivasse da un’estrema oscurità e si manifestasse nelle minime infinite sfumature dei colori grigi. Anche quando stampo le mie foto, cosa che ho sempre fatto io stesso fino a qualche anno fa, prima di ritrovarmi senza camera oscura e ora anche con lo zampino che il mercato ha deciso di metterci - è estremamente difficile trovare carte fotografiche e quando si trovano- ahimè di argento c’è né ben poco - non riesco a sopportare le alte luci, i bianchi sparati come si dice in gergo fotografico, tanto che, metto tutto il mio impegno per cercare un po’…di grigio anche dove non è stato registrato, quasi a voler sporcare la stampa fotografica e renderla fortemente contrastata… o meglio dura, sporca appunto, nella gamma dei grigi. Siamo fatti, dice sempre Erri De Luca «del grigio della polvere al suolo e del fiato di un vento».
Il bianco e nero in fotografia offre un altro modo di interpretare ed esprimere la realtà: a mio avviso con più profondità, con più necessità di ascolto. Ancora Tarkovskij nel suo Andrej Rublev, dove il colore arriva solo in presenza delle icone e poi termina di nuovo con dei cavalli in bianco e nero…oppure il film di Win Wenders «Il cielo sopra Berlino» dove il bianco e nero diventa quasi ‘intimistico’ ma in un modo talmente reale…
Certo non ho nulla contro il colore e conosco l’importanza della superficie, ma in alcuni casi possono essere fattori che distolgono per rendere tutto in apparenza troppo elegante e facile: un’estetica suadente, liscia, plastificata, un colore troppo rumoroso…una pubblicità accanto ad una guerra…
Il bianco e nero mormora da molto più tempo. Ma bisogna mettersi all’ascolto del mormorio di fondo che contiene, quasi una infanzia del mondo.
La fotografia digitale…per ora l’ho tenuta a giusta distanza e preferisco pensare al presente… quando ancora nei miei viaggi mi carico borse di pellicole fotografiche e poi necessito di qualche anima pia che mi aiuti a conservare e proteggere il materiale realizzato che svilupperò solo al mio rientro.
Il digitale…sicuramente ha già ottenuto dei risultati economici importanti: chi non ha oggi una camera o ancora meglio un telefonino digitale…tutti possono fotografare in tutte le condizioni e senza farsi vedere; se necessario.
Preferisco ancora la fotografia carica di intenzionalità, di memoria, di emozione; una foto pazientemente attesa e cercata che poi all’improvviso ti viene incontro. Ecco spero che il bianco e nero e la fotografia possano avere ancora questo futuro.
Dalla nostra terra Latinoamericana ci rendiamo conto di una politica quasi xenofoba della politica europea verso i migranti. Lei ha un progetto su questo tema: e eventualmente con quale criterio lo sto realizzando?
L’Europa non riesce a scrollarsi di dosso una visione in qualche modo ancora Tolemaica, eurocentrica di se stessa, correndo il rischio di… rinchiudersi. Questo per quanto riguarda un concetto almeno di Europa dei popoli: aperta a tutti i popoli.
Problema che non riguarda assolutamente le nuove finanziarie…come chiamarle oramai transeuropee o planetarie… che attraverso le banche, e non solo, non temono di certo arroccamenti geografici.
L’Europa, un’infinitesima parte della terra, sta cercando molto velocemente di rimuovere dalla memoria la sua storia, che è stata di immigrazione interna ed emigrazione verso il resto del mondo. Emigrazione sia economica che politica.
E l’Italia in particolare… ahimè… che vive oggi una pericolosa «urgenza democratica» interna, e sembra aver scordato in fretta tutta la sua storia, ne è la punta impazzita dell’iceberg. Un Paese che sembra completamente narcotizzato e in preda ad un incubo, dove hanno attecchito la paura dell’altro, l’egoismo, la xenofobia, il rifiuto del povero…anche nostrano. Un primo ministro, che non voglio nominare perché il solo nome mi mette in uno stato di totale desolazione, che non si risparmia termini di ‘italianità’ che oppone a ‘multiculturalità’: o di ‘inutilità’ del parlamento, e molto altro ancora… con l’intento chiaro di far diventare l’Italia un paese ingovernabile. Nel contempo si abbandonano alla deriva migliaia di migranti in barba ad ogni convenzione sui diritti umani, scritti o non scritti che siano. L’asilo, termine un tempo motivo di orgoglio civico e civile, ora trasformato in vergogna e irresponsabilità criminale, con il pretesto di combattere un’immigrazione economica travestita da esilio o da fuga dalle persecuzioni politiche, attraverso un uso onnipresente e spettrale della polizia e delle leggi. Un’Europa che non smette di precisare che le sue origini religiose e culturali sono cristiane e sfarina ogni dicembre la sua melensa, ipocrita, retorica natalizia, rimuovendo completamente la notizia e la storia di quel primo pellegrino senza visto in fuga da Betlemme.
No! Nessun progetto fotografico su questo tema, per due ragioni: la prima è che almeno fino ad oggi sono stato trascinato dal mio scellerato senso utopico verso una fotografia che possa contenere almeno un briciolo di speranza. ‘Un registratore’ la camera fotografica, che documenti gli eventi in favore di chi ne è protagonista e che si arricchisca grazie alle potenzialità inerenti all’essere umano…e contemporaneamente qualcosa che non coincida totalmente con ciò che si ha davanti agli occhi, con la documentazione resa mera riproduzione… Uno sforzo per andare al di là; immagini che possano raccontare magari…
di un’identità terrestre, e non la violenza di una estraneità.
La seconda è che il ritmo del mio andare è sempre stato piuttosto solitario…‘anarchico’…
più da… flâneur ottocentesco che da efficace imprenditore di progetti che comportano
una struttura diversa, complicata, …e da troppo tempo inevitabilmente, strettamente compromesso con il mercato, il denaro e il mero consumo.
Anche i progetti detti -umanitari- usano esattamente gli stessi criteri del mercato; usano termini come visibilità, presenza, pubblicità, efficienza . Ahimè strutture che prima di tutto vanno a caccia di denaro.
I risultati di tutto questo sono sotto i nostri occhi: dispersione, disorientamento, distruzioni ambientali in nome dello sviluppo, eliminazione di saperi e imposizione di modelli massificati e sempre più alienati. Un mercato che travolge al suo passaggio ogni forma di vita alternativa rendendo il povero miserabile e criminalizzandolo per questo. Se questo è il progetto allora…quando posso andare, preferisco gettarmi avanti…e stimolare l’indipendenza dell’immaginazione, la voglia di cercare….E quanto ciò sia difficile….
Così e nato anche uno dei lavori a cui sono più legato, proprio in casa vostra, tra le Ande del Chimboraso, nella zona di Guamote: quello delle fotografie delle Parteras. E questo grazie all’aiuto di Myriam Buitròn, che non conoscevo certo prima di sbarcare a Quito.
Anche da noi esistevano le Parteras un tempo. Erano dette Levatrici. Ma già dall’Ottocento professione addomesticata, resa subalterna e posta sotto controllo della scienza medica.
Le Levatrici scomparse completamente in qualche decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale del 1945, oggi lavorano negli ospedali e si chiamano ostetriche e provengono da ben altre esperienze.
Oramai si partorisce solo in ospedale, certamente con alcuni rischi in meno, ma in una «dimensione di umanità distrutta dall’asettica e disinfettata atmosfera della medicina coniugata solo al maschile», che consiglia e favorisce il cesario, che costa credo due o tre volte di più che il parto normale, anche quando non serve. Questo probabilmente possiamo chiamarlo progetto economico aziendale. E anche in questo l’Italia si distingue per la sua efficienza.
Per terminare, una piccola riflessione pensando alle parole scritte da John Berger sulla fotografia, dischetto digitale o pellicola che siano: “la fotografia…sia l’annuncio di una memoria umana, sociale e politica, non ancora realizzata”.
Per non far diventare il lavoro di fotografo… e il fotografo stesso merce standarizzata.