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Drago Jančar - Imbrigliare i demoni

Imbrigliare i demoni

In una tarda serata viennese di fine secolo mi venne presentato Claudio Magris. Il caso volle che nella stessa sera presentassimo a Vienna le traduzioni in tedesco di due nostri libri; per Magris si trattava dei Microcosmi, mentre per me del romanzo Il ronzio. A ben vedere, non si trattò di una coincidenza: i Microcosmi sono pubblicati dall’editrice Hanser con sede a Monaco di Baviera, mentre il mio libro dalla viennese Zsolnay. Considerando che poco prima la Hanser aveva acquisito la Zsolnay, come accade sempre più frequentemente nel mondo dei libri, ci ritrovammo sotto lo stesso tetto editoriale; essendo poi entrambe le presentazioni organizzate dal personale della Zsolnay, ci ritrovammo pure a cena, ognuno accompagnato dalla propria spedizione letteraria. La sua, soddisfatta, commentava un grande trionfo: la sala colma di viennesi entusiasti e moltissime copie vendute. L’atmosfera nella mia spedizione era invece alquanto tetra, perché il pubblico non era stato così numeroso e la serata era stata segnata, più che dal mio libro, dall’intervento di uno spettatore rumoroso dagli occhi iniettati di sangue, dalla camicia insanguinata e dall’animo evidentemente confuso e abbastanza ebbro. Essendo ancora segnato dall’accaduto non riuscii a rallegrarmi appieno per l’incontro con un autore di cui conoscevo i libri, che per giunta mi entusiasmavano: il suo eccelso diario di viaggio danubiano, che avevo letto tutto d’un fiato; il suo giovanile Mito absburgico, che aveva animato i nostri dibattiti sull’Europa centrale negli anni Ottanta e attraverso il quale avevamo conosciuto una civiltà scomparsa, spazzata via dalle follie nazionaliste e ideologiche del XX secolo; successivamente anche i Microcosmi con il loro affascinante, oltre che umanamente, storicamente e letterariamente pittoresco Caffè San Marco, e con lo stranamente drammatico Monte Nevoso, isolato nella propria solitudine, con i suoi contadini, cacciatori e rivoluzionari sloveni, oltre al professor Karolin, un anziano signore colto e di modi d’altri tempi, incapace di lasciare questo mondo prima di aver corretto un errore di sintassi.

Tuttavia Claudio Magris non aveva bisogno della mia ammirazione e, nell’atmosfera rilassata che si crea a seguito di un lavoro ben fatto, accompagnato dal tintinnio delle posate, divertì i convenuti con una serie di vivaci aneddoti e spiritose trovate. A me andava bene così, perché ciò mi evitava il disturbo di spiegare come la presentazione del mio libro fosse virata verso una sorta di disastro: al termine della lettura di un brano presso la Alte Schmiede, uno sconosciuto che indossava una camicia sporca di sangue si alzò, si appropriò della parola e affermò di aver letto il mio romanzo carcerario, non prima di aver puntualizzato che egli stesso era stato in carcere. L’atmosfera in sala si fece alquanto pesante e angosciata; la sua camicia insanguinata non provocò solamente un senso di fastidio tra il civile pubblico letterario viennese, ma pure una certa dose di terrore. Usando un tono arrabbiato e quasi minaccioso affermò l’evidenza di come l’autore non avesse mai visto un carcere dall’interno e si scandalizzò perché gli scrittori osavano abbozzare senza le appropriate esperienze di vita! Per tutta risposta gli dissi di essere stato incarcerato e di saperne qualcosa, allorché l’ex carcerato abbandonò il tono arrabbiato, dicendo che allora andava bene, perché in fondo il libro gli piaceva. Iniziò dunque a spiegare il perché del suo favore. Il moderatore cercò di fermarlo, ma con l’unico risultato di adirare nuovamente l’uomo dall’aspetto minaccioso. Evidentemente gli sembrò impossibile che proprio a lui, a un autentico carcerato, venisse impedito di parlarne. Quando finalmente il moderatore riuscì a zittirlo, il discorso non poté più volgere ad alcuna metafora letteraria. Come avrebbe potuto, vista la presenza di quel personaggio insanguinato, piombato direttamente dalla selvaggia rivolta carceraria narrata nel romanzo? A un nuovo tentativo dello sconosciuto il moderatore interruppe l’evento sfoggiando l’esperienza di un reduce da una prigione romanzata. Fantastico, affermò un mio amico viennese, non accade certo ogni giorno. Bizzarro, feci io, queste cose accadono solo a me.

Fui dunque felice perché non ci fu bisogno di parlarne, in quanto gli editori alla cronaca delle intemperanze di un ubriaco preferiscono le belle storie riguardanti pubblici entusiasti, conversazioni brillanti, giornalisti di grandi testate e, più di tutto, grandi numeri di vendita. Visto che nemmeno in questo senso la mia presentazione risultava esaltante, preferimmo ascoltare le soddisfatte relazioni della prima spedizione. La seconda andava dimenticata al più presto. Tuttavia Claudio Magris percepì che qualcosa non andava. Quando una rappresentante della casa editrice, approfittando del silenzio derivato dallinfilzamento dell’insalata, accennò che alla presentazione del mio romanzo aveva partecipato un numero esiguo di persone e che non avevamo venduto un granché, Magris non perse tempo e raccontò di una sua serata letteraria a cui parteciparono quattro spettatrici: la prima era sua madre, la seconda la zia, la terza e la quarta, se ben ricordo, le vicine di casa della madre. Magris elevò l’autoironica storiella a dimensoni comiche. Ridemmo, o almeno mi sforzai di farlo. Bello, pensai, ma questo divertente aneddoto e tutta l’amorevole collegialità venutasi a creare non mi aiutano affatto.

Quella notte ricevetti in sogno la visita del carcerato insanguinato e di una variopinta cricca di personaggi simili, fuoriusciti dal mio romanzo. Verso il mattino restava solo il mio amico viennese che affermava: fantastico, non accade certo ogni giorno. Effettivamente, pensai, cosa sono un pubblico entusiasta e delle conversazioni brillanti? Un carcerato ricoperto di sangue, all’apparenza uscito dal tuo romanzo, questo sì che nobilita la letteratura e la vita. Gli scrittori sanno consolarsi e rassegnarsi al proprio destino da soli meglio di quanto non sappiano farlo i loro amici.

Il personaggio romanzesco che aveva rovinato la presentazione del mio romanzo riuscì pure a oscurare il mio primo incontro con Magris.

Oggi che posso affermare di conoscere Claudio Magris abbastanza bene, comprendo come abbia raccontato l’aneddoto della madre, della sorella di lei e, se ben ricordo, delle vicine di casa, per la sua bontà di cuore con la quale penetra i legami interpersonali ottenendo il favore dell’interlocutore e dei lettori. Perché lo stesso tono, così diretto e umano, risuona pure nella sua letteratura, indirizzato al lettore e a me, lettore ma al contempo scrittore. Da lettore che non aveva ancora conosciuto personalmente l’autore, venni come molti altri conquistato dai verbi proferiti sul Caffè San Marco, ovvero da quel tipo di parole per le quali affermiamo che avremmo potuto scriverle noi stessi, ma ovviamente lo facciamo solo quando le abbiamo lette: «Forse anche scrivere è coprire, una sapiente mano di vernice data alla propria vita, sino a farla apparire nobile grazie ai suoi errori messi abilmente in vista mentre si finge di occultarli, con un tono di sincera autoaccusa». Parole seguite dalla forte immagine, offerta nel finale, di quel microcosmo che è il Caffè, il percorso che parte dall’umanità delle sue foto, vicende, destini, storia e cultura, per finire nelle viscere della terra, dove Orfeo non si dirige solamente all’Ade, ma pure verso il purgatorio cristiano, verso la sporcizia dei bagni del Caffè, verso «l’anticamera del Giudizio», verso l’attesa, in cui «l’eternità è lo sgocciolio che scende lungo l’orinatoio». Per lavarsi finalmente nella paradisiaca pulizia di una fontanella del vicino giardino pubblico, nell’acqua bassa della laguna, nella neve così bianca.

Da quando, per volontà del destino incarnatosi nelle fattezze di una sua ex studentessa, oggi traduttrice e professoressa di filosofia presso un liceo sloveno di Treste, ci siamo avvicinati e coltiviamo un rapporto ormai quasi di amicizia, oso affermare che solo una persona come Claudio Magris è capace di scrivere simili storie utilizzando simili metafore. Solo un intellettuale del suo calibro, acume e slancio mentale può aver scritto Il mito absburgico in gioventù e, successivamente, un libro come Danubio; solo uno scrittore del suo talento riesce, nello stesso libro, a lasciarmi senza parole ponendo l’innocente domanda su cosa accadrebbe se una persona chiudesse il rubinetto dal quale scorre l’acqua che, si narra, alimenta la fonte del fiume d’Europa: forse l’enorme corso d’acqua si prosciugherebbe? Una domanda che ci suggerisce le potenti immagini di una tale catastrofe, simili a quelle causate dall’assenza di virgole nella visione del mondo che ha il professor Karolin. Solo uno scrittore del genere, che da un angolo osserva il complicato intreccio che la storia ha riservato a Trieste e all’Europa intera, può – nel romanzo Alla cieca – umanamente comprendere la tragedia dei cosacchi nel ’45 o quella degli idealisti del comunismo italiano, e solo lui è capace di svelare i fini dettagli dell’angoscia di un’anziana signora nel racconto Lei dunque capirà.

Già durante il breve incontro a Vienna ebbi l’impressione che Claudio Magris, da un punto di vista prettamente umano, rappresentasse un’eccezione alla regola dell’umanità letteraria, spesso ossessionata da superbia e invidia. Da quando lo conosco meglio, tale sensazione si è semplicemente consolidata. Non posso certo tacerlo: Claudio Magris, con un gesto semplice ma al contempo magnanimo, scrivendo cioè della bozza di traduzione di un mio romanzo – vi prego di notare: non del libro, della bozza! –, di una bozza che gli editori gettavano a destra e sinistra, aprì la strada alla mia letteratura nella vita del grande e immensamente creativo circolo culturale italiano. Nella mia vita di letterato non ho mai vissuto nulla di simile. E lo fece con un gesto spontaneo, come spontaneo gli sembrò, durante una cena viennese, raccontare un aneddoto sulle persone convenute alla lettura di alcuni suoi scritti. Proprio allora, quando ero perseguitato da un demone della mia letteratura. A riguardo Magris scrive: «Scribacchiare, liberare i demoni, imbrigliarli, spesso solo scimmiottarli con innocua presunzione». È qualcosa che facciamo entrambi.

Fino a oggi ho creduto, con particolare convinzione a Vienna, quando venni inseguito da uno dei miei personaggi romanzeschi vestito di una camicia insanguinata, che scrivere significasse soprattutto la prima di queste cose – liberare pericolosi demoni. Incontrando Claudio Magris, la sua brillantezza letteraria e la sua apertura umana, mi è chiaro che essi possono essere anche imbrigliati, se non addirittura domati del tutto o semplicemente scimmiottati in maniera innocua.

da Claudio Magris Argonauta a cura di Danilo De Marco e J.A.Gonzàlez Sainz

fotografie di Danilo De Marco

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