Parole

Gianpaolo Gri - R/Esistenze A margine

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Prendo la parola a nome di quanti hanno accompagnato, in vario modo, Gianluigi Colin e Danilo De Marco nella realizzazione di questa mostra.
Ma è una mostra? Si può dire una mostra?
Colin, ieri, l’ha definita “testimonianza” (civile); meglio “percorso”, ha detto un altro, o “itinerario di memorie”. Un amico, poco fa, vedendoci in tanti ad inaugurarla, l’ha chiamata una performance: nel senso che i visitatori ne sono parte costitutiva; a loro viene chiesta un partecipazione attiva, uno sforzo di empatia alto, superiore a ciò che richiede un percorso espositivo normale.
A Danilo De Marco non dispiace la parola “installazione”. Sì; ma nel senso (letterale) che le sue immagini sono collocate qui, negli spazi delle vecchie stalle. Non nell’edificio padronale, dove villeggiavano i nobili Manin, ma nelle barchesse di servizio, negli spazi dei loro contadini e delle loro bestie. Perché le ville venete erano questo: bellissime macchine architettoniche costruite per drenare le risorse del territorio, per rastrellare il sudore degli uomini e i prodotti dei campi e immagazzinarli qui dentro, proprio negli stanzoni dove ora stiamo. Inauguriamo questo pomeriggio nel luogo giusto una installazione dedicata alle “resistenze”, dunque; sta (la mostra) e stiamo proprio bene, qui, a margine: non nel luogo del potere, ma in quello della fatica.
Ricordando i tanti monumenti alla Resistenza che, anniversario dopo anniversario, in altre stagioni si sono inaugurati, ad alcuni di noi è parso di lavorare alla costruzione di un genere nuovo e particolare di “monumento alle resistenze”: fatto di immagini e di parole, effimero.
Questo carattere effimero e indefinito è stato tradotto molto bene nella grafica del catalogo. È un libro, questo? Non si capisce qual è il davanti e il dietro, dove il prima e il dopo, l’inizio e la fine. Come se i grafici e l’editore avessero giocato ad abolire i confini.
Il contenuto di ciò che si vede in questi spazi è proprio così: richiama persone reali, esistenze, non un evento che le imbozzola; richiama un’esperienza storica senza inizio e senza fine, senza capo e senza coda; una storia che torna su se stessa e nella quale perdono significato le distinzioni fra il singolare e il plurale, l’ieri e l’oggi, il qui e l’altrove, il già accaduto e ciò che sta accadendo. Per questo abbiamo scelto come didascalia di avvio tre versi di Pierluigi Cappello:

è la coda di un esercito in fuga
o la fronte dell’altro che
incalza
qui resistere significa esistere

E per questo, ad aprire i richiami o gli echi del passato nelle didascalie di accompagnamento, abbiamo scelto un passo terribile de La guerra del Peloponneso di Tucidide, utilizzato da Carlo Ginzburg nell’introduzione al recente Rapporti di forza. Nel 416 gli abitanti dell’isola di Melo, alleati di Sparta, si ribellarono agli ateniesi. La risposta fu dura: tutti gli uomini uccisi, le donne e i bambini ridotti in schiavitù. Prima della strage, agli abitanti di Melo che invocavano le ragioni della giustizia, gli ateniesi opposero le ragioni del potere: «La valutazione del diritto si pratica, nel ragionare umano, solo quando si è su una base di parità, mentre se vi è disparità di forze, i più forti esigono quanto più è possibile e i più deboli acconsentono». Uomini e dei devono dunque sottostare alla legge di natura che spinge chi ha il potere ad esercitarlo: «Questa legge non l’abbiamo stabilita noi né siamo stati noi i primi a valercene: l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, e avrà valore eterno».
Un passo terribile e modernissimo: perché a richiamare il presunto “diritto di natura” dei forti a mangiarsi i deboli non sono i militaristi spartani, ma i democratici ateniesi; sono gli inventori e gli esportatori della democrazia. Ieri come oggi. “Presente storico”, ha titolato la prima delle sue sezioni Gianluigi Colin: a ricordarci che invece servono nodi al fazzoletto, serve la capacità di individuare i fili portanti, come nelle ragnatele, e serve preservarli.

Ci sono due anomalie qui, alle spalle di questa mostra.
Inauguriamo un’iniziativa evidentemente legata al 60° della Resistenza. È proprio la pregnanza di questo anniversario che ha giustificato il finanziamento dell’Assessorato regionale alla cultura e ha reso possibile il sostegno dell’Azienda speciale Villa Manin. Ma è anche un’iniziativa che non ha nient’altro alle spalle: nessuno sponsor, nessuna partecipazione finanziaria e nessun patrocinio di istituti, associazioni, enti, istituzioni, dipartimenti, gruppi, partiti, chiese, parrocchie. Solo collaborazioni gratuite. Qui ognuno risponde solo di se stesso e a se stesso.
Per questo posso dire solo di me. Ho aderito alla proposta di Danilo De Marco per reazione, perché disgustato, e in qualche momento perfino stomacato da quanto è successo nella nostra regione, nell’ultimo anno, in fatto di commemorazioni e “giornate della memoria”: un tentativo sistematico di appropriazione della memoria collettiva; un gioco accanito, sostenuto dai cortei di autorità guidati da ministri e sottosegretari, che mirava a imporre la visione rovescia della storia, ad annacquare le differenze, a tagliare le radici dei fatti, a isolare gli eventi dalle loro cause. Non avevo mai assistito a un così lucido “gioco di memoria”, mirato ad alzare il tono della smemoratezza in quest’Italia distratta.
Mi sono ricordato che nel corso del Novecento, fra le non molte parole regalate dall’italiano alle altre lingue sono proprio i termini oppositivi che hanno segnato le esistenze del Novecento: c’è fascismo e c’è partigiano. Nel suo significato antico e originario “partigiano” significa “prendere parte”, “essere parte”; è una parola che afferma l’impossibilità dell’equidistanza e richiama i rischi della confusione.
Ma è una questione delicata. Fra le citazioni che abbiamo estrapolato a corredo della mostra, ce n’è una di Primo Levi, tratta da una sua nota relativa alla ricerca che Hermann Lagbein dedicò ai carcerieri di Auschwitz, ai carnefici e ai complici, a “quelli dell’altra parte”. Il risultato della ricerca inquieta: «non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci assomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che è senza ritorno» (Primo Levi, La ricerca delle radici, p. 221).
Nel terzo piano della mostra, Danilo De Marco presenta, in figura, i volti degli ultimi partigiani; volti intensi, come più non si potrebbe. Volti diversi? Dopo aver riletto Primo Levi non posso dimenticare che non sarebbero diverse le “figure” di quanti ancora vivono, anziani, col volto solcato da altrettante rughe, e che allora stavano invece dall’altra parte.
Dove, allora, la differenza?
Proprio in ciò che indicava Primo Levi: nel rifiuto dell’ossequio e del consenso; forse allora, all’inizio, solo un rifiuto istintivo, poco ragionato, magari solo insofferenza giovanile. Insofferenza, non indifferenza. Una scelta: una scelta che per alcuni non fu magari pienamente consapevole, ma si lasciò trascinare dalla consapevolezza di altri. Una decisione che Erri De Luca richiama nel pezzo che ha scritto per il catalogo, e che è condensata nel gesto semplice di rispetto che sentiamo di dover tributare a chi se ne fece carico, anche a tanta distanza di tempo: «Le facce visitate e raccolte da Danilo De Marco lasciano un buon nome /…/ E oggi queste sono le ultime facce, l’ultima stesura di una gioventù coraggiosa che fece la cosa giusta al prezzo più alto. Lasciano un buon nome, di quelli da nominare a tavola alzandosi in piedi e toccando bicchieri alla loro salute».

Da qui la seconda anomalia. La Resistenza (l’evento storico delimitato, cioè, con un suo inizio e una sua fine, un suo prima e un suo dopo) qui è solo un pretesto. La mostra (o quel che è) vuole richiamare piuttosto ciò che Barbara Spinelli definisce “il principio di resistenza” in sé; il principio di resistenza che fa germinare in ogni tempo e in ogni luogo esistenze resistenti, che si nutrono del bisogno di cambiamento, che hanno compreso i rischi terribili dell’ossequio; esistenze che invece del conformismo scelgono i rischi del “far parte”, accettano la fatica del ripartire. Come la Teresa del Guatemala, dalla cui terribile “storia di vita” abbiamo estrapolato il succo: «Avevo ancora in testa le grida, gli spari, e nel naso l’odore dei miei morti. Ho visto uscire dal bosco tre bambini e mi sono venuti intorno piangendo. Cosa potevo fare? Ho preso quattro stecchi, li ho messi sul focolare e ho riacceso il fuoco».
Questa è appunto l’anomalia: una mostra (una installazione, un percorso, un monumento effimero, una testimonianza…) che si genera intorno a un anniversario per affermare che su questo terreno non si danno anniversari. Perché in fatto di “resistenze” non si danno inizi e conclusioni, perché quanto è successo è già accaduto, perché quanto è accaduto si ripete.

Gian Paolo Gri
(Passariano, 16 aprile 2005)