Lo scorrere dei miei giorni è stato accompagnato in questi anni dal calendario che Danilo De Marco organizzava, coinvolgendo con ostinazione amici e associazioni amiche intorno ai mondi lontani rimandati dalle sue immagini. Un calendario, o piuttosto un contro-calendario: niente da celebrare, esibire, vendere, propagandare, chiedere; un modo concreto, invece, per ripagare impagabili ospitalità tanto povere quanto generose e gratuite, e per ricordarci che esistono e germogliano continuamente, lungo i margini dei garantiti, comunità migliori di quanto non siano le nostre, impaurite dal futuro perché sazie, impantanate in una democrazia a rischio di suicidio.
Negli anni, in questo viaggio a cadenza inframmezzato da mostre, cataloghi e incontri, ad accompagnare Danilo De Marco con fedeltà è stato anche Erri De Luca. Un’amicizia nata in tempi e luoghi non sospetti d’interesse: nella Sarajevo appena emersa e segnata ancora dal macello; un legame di poche parole e molti fatti, fra due cittadini (Udine e Napoli) votati alle periferie e allo sradicamento. Uno ha fatto cento mestieri prima di farsi fotografo giramondo, alleato di contadine e contadini sporchi di terra non loro; l’altro ha fatto cento mestieri prima di farsi scrittore. Nato sul mare, è diventato uomo di montagna, e di montagna anche friulana. Una coppia ostinata come poche nel richiamare, prima per sé, l’obbligo del farsi umili, del mettersi alla scuola di mondi piccoli e laterali, impegnati con fierezza in lotte che noi giudicheremmo perse in partenza e che invece, anche per il solo fatto di essere affrontate e sostenute, restano la garanzia più solida (l’ultima?) alle nostre ridotte capacità di speranza e resistenza. Una coppia ostinata anche nella fedeltà al bianco/nero. La scrittura di Erri richiama e incarna come poche la metafora antica dell’aratro che semina di nero l’aridità del foglio bianco, incidendolo: semi contati; mai una parola, mai un aggettivo di troppo. La tavolozza di Danilo è fatta di bianco e delle tonalità del grigio; sue fotografie a colori sarebbero impensabili.
Ora l’editrice Forum, con la consueta perizia e coerenza grafica, sottrae all’effimero delle edizioni occasionali precedenti, recupera e opportunamente ripropone le combinazioni costruite dai due amici negli anni, intrecciando le parole di uno alle immagini dell’altro.
“Rivolte inestirpabili”. Erri De Luca scrive che il titolo è figlio di una bottiglia di vino condivisa. L’espressione rimanda prima di tutto a una sorta di condizione esistenziale/destino/vocazione di loro due e di una parte larga della loro generazione, sempre dalla parte sbagliata, ad «abitare una parte di mondo e fare il tifo per l’altra». A salvare dalla disillusione e dal senso di impotenza, è proprio il vedere i propri ideali condivisi dai tanti che nelle situazioni di massimo sfruttamento continuano a trovare «la spinta per unirsi in maniera orizzontale. Per opporsi, mettersi in urto, chiedere qualcosa che può migliorare la loro vita». Il destino di “resistenti interni”, come gli autori continuano a essere anche ora, che il peso degli anni e del tanto camminare si fa sentire, ha così una sorta di risarcimento negli sguardi a viso aperto colti nelle parti più diverse del terzo e quarto mondo, nel pugno chiuso e alzato di bambini, ragazze e donne, nella fierezza e nella tenerezza di gesti e corpi di altre culture. Siamo dentro un gioco di rimandi. Erri De Luca ha deciso di imparare l’yddish dopo una visita ad Auschwitz e Birkenau, a risarcimento parziale delle vite e della lingua distrutte in quei luoghi. Danilo ricambia ospitalità e dialoghi indimenticabili, dando dalle pagine dei giornali, nelle mostre e nei cataloghi, parola agli occhi e ai corpi di quanti hanno offerto senza nulla chiedere, là e qui (rivedo nel libro anche i volti «scritti» della sua Resistenza, inseguita in diverse parti d’Europa). Le fotografie di Danilo continuano ad accusare la trasformazione dei diritti in concessioni paternalistiche e la mutazione della solidarietà in compassione; le parole di Erri ci richiamano una verità primitiva: che a tutte le persone è dato lo straordinario potere di dire di no, anche nei contesti più terribili; che proprio questa è la discriminante che conta, se si vuole restare persone umane, la scelta fra l’essere liberi o servi.
“Noi due”, titola il pezzo d’apertura. Non è l’auto-elogio di due solitari, di due irriducibili “vedranàz” (come diciamo qui in Friuli, quando vogliamo associare mancanza di moglie e figli, scontrosità e gusto per il nuoto controcorrente). Siamo debitori a Erri De Luca, in questi anni, di un’insistita e profonda “etnografia del numero due”. Anche in questi testi riemerge spesso il tema che reggeva l’opera dove quell’etnografia è più compiutamente sviluppata (Il contrario di uno, Feltrinelli 2003): il due come contrario - non il doppio - dell’uno; il due alleanza, corda doppia, sicurezza in parete; il due come garanzia iniziale di rivolta efficace; il due dell’uguaglianza e della convergenza, dell’amicizia e della reciprocità; il due come fame e sete di alterità. Due sono loro, gli autori, con il loro dialogo, la loro amicizia, con le immagini finali di uno che fotografa l’altro; ma doppia, a doppio filo, è anche la storia che tutti stiamo vivendo. Noi e gli altri. Tornano nel libro, nella cadenza dei diciassette testi e del centinaio di immagini, milioni di piedi decisi a resistere, fermi, e milioni di piedi in movimento. Immigrati, rom, sans-papier, profughi, richiedenti e sospiranti asilo, vittime di ospitalità crudeli e selettive, rifugiati e rifiutati, concentrati, espulsi. Milioni di “altri” che abbiamo fra noi, a incrociare le vite con le nostre, irriducibili «messaggeri del cambiamento». Il libro è un invito a guardare in viso anche loro, occhi negli occhi, e ad ascoltare. Erri De Luca chiude con un graffio che gli viene dalla consuetudine con le scritture sacre: «Chi non sa i gridi non sa niente».