A far scorribande in certe isole della Sicilia, come fa spesso Giovanna Ioli, capita d’imbattersi in una specie nostrana di Chamaeleo chamaeleon, al secolo camaleonte. Non bello (ha un tronco compresso, ma soprattutto occhi grossi, che si muovono indipendentemente l’uno dall’altro, e una lingua grossa e vischiosa, che estroflette con gran rapidità), questo animalino d’una trentina di centimetri al massimo ha tuttavia una prerogativa che me lo rende affascinante: è capace in un istante di mutar di colore, se questo lo protegge da qualche pericolo, reale o supposto che sia. Ho citato a bella posta, e non solo perché è un’inesausta viaggiatrice, un’amica, che abbiamo ambedue molto cara, io e il mio personale Camaleonte. Nonostante che tra maschi lo spirito di rivalità sia insopprimibile, devo ammettere che il mio Camaleonte non è brutto: ha i suoi begl’occhi, profondi e parlanti, e una sua corporatura, se non proprio atletica, d’una qualche snellezza. Il naso, beh il naso, ha certo una marcata personalità: ma non c’è bisogno di scomodare Nicholas Savinien de Cyrano de Bergerac, e neppure il suo propagandista Rostand, per sapere che gli uomini dotati di un naso rilevante sono anche i più intelligenti e fascinosi.
Cyrano, del resto, è a sua volta camaleontico: brutto, ma invincibile spadaccino e irresistibile seduttore. Sulle imprese seduttive del mio Camaleonte tacere è bello: proprio quest’anno cade una ricorrenza che dovrebbe indurlo a un qualche riserbo (ricordate il capitano di lungo corso de’ L’uomo, la bestia, la virtù: «Passò quel tempo Enea…»?), e tra maschi, da una certa data in poi, la rivalità si tramuta in solidarietà muta e complice. Ma ecco che ha fatto capolino, in queste mie povere note, il verbo-chiave, tramutarsi, in cui il mio Camaleonte si riconosce perfettamente e di cui – quasi nutritivamente – si sostanzia.
Innanzi tutto, a livello etimologico: giacché non c’è bisogno di scomodare quel sapientone del professor Beccaria per sapere che questo verbo significa, in prima istanza, cambiar di posto, mutar di luogo. Orbene il mio Camaleonte è, prima di tutto, questo: oggi è qui, domani è là, oggi è in Cina e posdomani, se non proprio domani (giacché bisogna pur permettere ai jet supersonici di volare), in Italia, non senza concedersi una sosta affabulatoria a Cuba, tanto per dire due parole ai poveri studentelli de La Habana, assetati di sapere. Quanto ad affabulazione, il mio Camaleonte è irresistibile: con la sua lingua estroflessa è capace di stordire l’uditorio con una loquacità dai molti registri, ora affabilmente conversevole, ora contegnosamente oratoria: qua una dotta citazione, quasi sempre rapinosa («Siamo fatti della stoffa dei sogni, e la vostra vita è cinta da un breve sonno…»), là un fuggevole ricordo («Erano gli anni dei nostri eroici furori, e a piazza Vittorio, mi rammento, io e il mio amico Massimo Salvadori…»).
Ma mi accorgo che vado divagando. Si muove, il mio Camaleonte, in perpetuo: tanto che qualche malevolo osservatore lo ha un giorno accostato all’Ortis del Foscolo, dico propriamente allo Jacopo, per la sua ben nota psicosi deambulatoria: «Ma è poi possibile – si chiedeva costui – che non stia mai fermo? Non fai a tempo a stringergli la mano, ripromettendoti di mettere, un giorno o l’altro, le gambe con lui sotto il tavolo che è già alla Stazione centrale o all’aeroporto di Orio al Serio, pronto a mettere le piante su qualche predellino e a ripartire per una nuova destinazione…». Non posso negare che una qualche fibrilla di ragione quell’osservatore malizioso ce l’avesse: e sarebbe forse stato inutile spiegargli che il mio (il nostro) Camaleonte qualche sosta, non foss’altro per fiatare un pochino, se la concede. Ma, com’è giusto, la riserva tutta per sé: sono le ombreggiate (ma non ombrose) soste al Caffè Fiorio o al Caffè Tommaseo, con penna stilografica in pugno, gran fogli formato protocollo, belle tazze di fumanti cappuccini o belle pinte di birra schiumante, e giù a scrivere di buona lena, dal momento che quelli del «Corsera» la sua calligrafia, larga e infantile, riescono a decifrarla anche così, alla barba di dischetti e computer…
L’accenno all’infanzia mi rimette in carreggiata (stavo per andare fuori tema – capita anche ai professori di università): tramutarsi vuol dire anche trasformarsi, mutar se stesso in modo d’assumere una diversa forma o una diversa natura. E in questo il mio Camaleonte, juxta propria principia, è impareggiabile. Come ogni infante che si rispetti, trascorre dalla più svagata canzonatura al più immalinconito scontento nel giro non dico di pochi giorni, ma di poche ore. Nella burla puerile è impareggiabile. Gli si intrufola nello studio il solito matto bonario, il generale Imberbi, che si vive come Presidente della Fratellanza Universale, e lui lo spedisce dritto dritto a quel suo collega filosofo impettito e barbogio, che i matti non solo li detesta, ma ne ha un terrore ancestrale. Trova sulle bancarelle il consueto polpettone accademico dell’aspirante germanista omaggiato con tanto di rispettosa dedica al germanista adulto e schifiltoso, che se n’è prontamente sbarazzato, vendendolo per un paio d’euro all’ambulante amico: lui lo acquista e lo rispedisce al donato con una lettera d’amarezza e di sdegno del donatore. Eppure, nel pomeriggio stesso del giorno in cui s’è inebriato di quel bambinesco sberleffo, te lo ritrovi dinnanzi afflitto da una nera tetraggine: non sa spiegarti neppur lui donde provenga quello scoramento fondo; son queste le sue ore buie, che un’acedia triste inquina.
Ma eccolo, all’alba seguente, al suo tavolo di lavoro, rifatto adulto, e consapevole che non s’hanno da dilapidare numias horas subcesivas, troppi (preziosi) ritagli di tempo (come predicava Seneca a Lucilio) a sberteggiare il prossimo indifeso. Eccolo dunque al vasto arazzo d’un libro, all’alveo maestoso come il fiume solenne cui è dedicato. È stato il saggista, in lui, ad averla vinta sull’ameno canzonatore: chino sulla risma di quelle pagine bianche, si muove dalla sorgente all’estuario del suo fiume tra argini e anse, banchine e prode; e ogni deviazione (giacché uscire dalla via è pur sempre un cambiamento, una trasmutazione) è fonte per lui di un estatico incantamento.
Saggista, abbiam detto? Ma se è proprio in codeste occasioni di subitanea metamorfosi che fa capolino in lui l’altro da sé, se è proprio allora che dal saggista nasce il narratore: e la memoria si atteggia a racconto, il rendiconto s’affavola, la nota diaristica più prosaica sfuma nell’indistinto lirico della fiaba.
Faccio punto qui: ma vi prego di credere che non è questa l’ultima incarnazione del mio personale Camaleonte. Ricordate Proteo, il camaleontico dio marino a cui Poseidone aveva affidato interi branchi d’animali equorei, a lui cari, affinché li custodisse pascolandoli? Il vecchio non si sottrae mai al proprio compito, ma, intanto, non cessa di trasformarsi: è leone, pantera, talvolta albero, talaltra acqua di fonte…
da Claudio Magris Argonauta a cura di Danilo De Marco e J.A.González Sainz
fotografie di Danilo De Marco
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