Parole

Pierluigi Cappello - Resistenze/Alla mamma il capo dei banditi

pierluigi-cappello1.jpg

Oltre le mura si sentono le urla, i colpi. La città è sotto assedio.
Dentro le mura il lastricato è caldo, sul lastricato preme la corsa dei sandali di guerra, un uomo è diretto nel cuore della battaglia contro soverchianti avversari, contro ogni pronostico; il suo dorso è coperto di bronzo, la testa da un elmo battuto dalla luce. Ormai il guerriero è a pochi metri dalla soglia, le grandi porte verranno aperte e sarà la polvere e il sangue, la ferita e l’urlo: come un tendine prossimo a scattare, la sua concitazione si assottiglia lungo i muscoli contratti, le spalle scoperte, si raddensa in un nodo di concentrazione dietro il suo sguardo. Quell’uomo è Ettore, figlio di Priamo, e la sua corsa verrà arrestata da Andromaca a pochi passi dalle porte Scee. L’episodio riportato è uno dei più conosciuti di tutta l’Iliade.
Principessa e principe si incontrano sulla torre non lontana dalle porte, di qua la città di là la guerra, Andromaca è seguita da un’ancella che porta in braccio Astianatte, loro figlio; uomo e donna sono uno di fronte all’altra, ora, e possiamo avvertire il respiro del campione che si allenta, si dà pace nello sguardo della sposa e tutt’intorno la furia è deposta, tace. Un cerchio di silenzio, un’aria senza tempo sembra stringere le due figure, per sempre.
Andromaca cerca di dissuadere Ettore dall’uscire in battaglia, ma il suo intervento è poco più che rituale, la speranza di chi non spera, e si spegne quasi subito negli occhi del marito dentro i quali c’è una determinazione che non può essere rimossa. Dietro Andromaca c’è l’ancella, fra le cui braccia è protetto Astianatte, il bambino è futuro incarnato, respira placido, inerme. Il padre vuole abbracciare il figlio, stringerlo a sé, ma nell’avvicinarsi scuote il cimiero, spaventa il bambino, la cui placidità si rompe in pianto. È a questo punto che si consuma il gesto, che il momento raggiunge la sua dolce incandescenza: Ettore si sfila con tenerezza e con scrupolo l’elmo, restituendo la serenità turbata al figlio e, mentre lo fa, compie il miracolo; da un lato ricompone l’ordine del cosmo familiare a un tiro di lancia dalla battaglia, dall’altro con quell’unica azione riempie di senso e di umanità la sua decisione al conflitto. Sfilandosi l’elmo allontana da sé la guerra, inevitabile proprio in virtù del gesto che compie.
In questo quadro, Astianatte non è solo Astianatte, è tutto il futuro della città che precipita nel bambino, facendone un punto luminoso, rendendolo, a un tempo, figlio di Ettore e figlio della città assediata. È con la consapevolezza che privato e comune si intrecciano in quell’unico punto rappresentato dal figlio che il principe di Priamo si avvierà alla sua sorte varcando la soglia e, quando lo farà, sarà già un uomo senza vita perché la sua vita, a quel punto, sarà già stata offerta alla civiltà che egli stesso rappresenta.
Entro questi termini una soglia impone una scelta, varcarla significa mettere in crisi un ordine per prospettare un ordine ancora incognito, tutto da edificare. L’Epos aiuta.
La soglia delle mura rosse di Troia separa ciò che è privato da ciò che è collettivo, porta a compimento in Ettore il senso della perdita e illumina la necessità di tale perdita. È una linea che ha attraversato il tempo e le coscienze degli esseri umani e si è riproposta, intatta, durante il biennio della resistenza.
Gino Lizzero, partigiano, nome di battaglia Ettore: come il campione d’Asia ha varcato una soglia per affrontare nemici ancora ben organizzati, meglio armati e preparati ad uccidere.
Una madre e un figlio sulla soglia, il silenzio che cresce lungo i loro occhi, si fa denso quando la madre pettina i capelli del figlio con le dita, indugia con la mano sulla giacca da montagna. «Frut no sta a lâ» non andare bambino, lei avrà provato a sussurrare, bella intorno alla sua voce. Gli sguardi di una madre e di un figlio raccolti nel riquadro della porta aperta, le due teste una di fronte all’altra, abbagliate dall’alba. Ci sarà stato un culmine di intensità, un punto di equilibrio nel quale il figlio avrà esitato, un istante che dura dai tempi di Ilio, la città assediata; poi il ragazzo si sarà avviato voltandosi una, due volte, salutando nel silenzio, muovendo nella direzione del conflitto i suoi passi che, da quel momento, non sarebbero stati più suoi, ma patrimonio di tutti, nostri, risaliti fino a noi.

Ho sul tavolo, mentre scrivo, la fotocopia di una fotografia portatami da Danilo De Marco: a giudicare dai gelsi senza foglie, può essere stata scattata durante l’inverno del ‘44-’45. Vi è raffigurato un uomo avvolto in un pastrano, il pastrano è stretto in vita da una cintura robusta. L’uomo si fa ritrarre disarmato, la sua mano destra è tuffata in un’ampia tasca, la sinistra, morbida e svagata, regge tra l’indice e il medio una sigaretta.
La postura è feriale, più adatta a un uomo che osservi, con distacco soriano, lo svolgersi di una partita a morra in osteria, che a un uomo di guerra. Lo sguardo è fermo e malinconico, lo sguardo di qualcuno che ha lasciato qualcosa.
La fotografia è attraversata da una dedica, l’autore della dedica è Mario Lizzero, fratello di Gino. La grafia sicura dice: «Alla mamma il capo dei banditi». Tutto, la postura, l’ironia della frase, lo sguardo, è inteso a rassicurare e a ricomporre l’anello familiare spezzato. Una sosta tra due tempeste. E io credo che il fotografo, mentre ha scattato, abbia ritratto Ettore che si sfila l’elmo: un uomo con la sua vita alle spalle, davanti a lui, il sorriso appena accennato.

capoband-copy-copia.jpg