Da noi quando il mare si arrabbia si dice che diventa bianco.
Abito in un posto che si chiama Kontovel, sospeso tra l’altopiano del Carso e la costiera del golfo di Trieste.
A guardare il mare da quassù, nei giorni sereni e senza vento, ti sembra sia lui ad abbracciare te, non tu ad abbracciare lui. Un respiro vivo e da non disturbare, come i vini che riposano nelle mie botti.
Ho fatto il pescatore, avevo una batana, un’imbarcazione a fondo piatto adatta alla navigazione sottocosta, le acque del golfo si può dire che le conosco palmo dopo palmo, come le rocce del Carso. Sono stato sorpreso più volte dalla tempesta, quando la bora scura scuote le acque a cento centoventi chilometri all’ora il mare si arrabbia, la sua schiuma è la bava bianca di un viso deformato dall’ira. In quelle circostanze l’acqua è una forza prensile, bisogna sapersi disporre ai marosi e al vento, una forza da assecondare, non da contrastare, se ti metti di traverso o di prua alla direzione delle onde, allora una potenza di tonnellate spezza la spina dorsale dello scafo, una barca non si guida come un’automobile, una barca si conduce.
‘Condurre’ significa portare qualcosa con sé e darle una direzione, avere coscienza di ciò che si porta, si può pensare al pennello e al pittore: c’è il pennello c’è il pittore c’è l’ingegno del pittore, timoniere del suo pennello, il pittore lo conduce secondo il suo ingegno, ma sa che, laddove mano e vista non arrivano, arriva la sapienza del colore, è il colore a disporsi in spazi imprevisti, se condotto con cura.
Come un pittore con il suo pennello: una barca nella tempesta si conduce così. Anche una vita si conduce così, nella tempesta. Io penso che, in fondo, sia un atto di decisione e modestia. Tutto qui.
Nel ‘43 la storia era un grande mare bianco, largo quanto l’Europa, io avevo diciassette anni, Mussolini era caduto da poco sotto i colpi di Montgomery e Patton, i bombardamenti delle città e un razionamento sempre più stringente.
Da nord, da Trento e Tarvisio cominciavano a scendere le colonne corazzate della Wermacht, da sud salivano gli alleati, l’Italia si spezzava in due. In quel tumulto io ero a Verona. Avevo dovuto nascondermi lì perché a Trieste già mi cercavano, a diciassette anni antifascista. Non so neanche perché lo fossi, non avevo una grande coscienza di me, in quel momento. Forse era una questione di linguaggio, mi davano fastidio frasi come ‘Alti Destini’ o ‘Irrevocabile Missione’ o le rimbombanti canzoni fasciste. Mi disturbava l’arroganza che mandavano quelle parole.
Qualche volta mi chiamano per commemorare un compagno che se ne è andato, siamo vecchi ormai, l’economia delle parole mi viene da lì, come reazione allo sperpero che ne faceva il regime. Cerco di dirne poche e messe il meglio possibile, perché davanti alla morte non c’è molto da dire. Cerco di farlo con precisione e pudore. A Verona sono rimasto un paio di mesi, poi sono salito sul Carso - IX Korpus, 22ª Divisione -, è lì che è maturata la mia coscienza di antifascista, essere braccati unisce. La differenza tra i fascisti e noi era l’atteggiamento rispetto alla vita, loro avevano il culto della morte eroica - i fascisti veri, intendo, non i poveracci di leva dell’esercito di Salò - e il culto della morte esclude il futuro, anche noi siamo morti in tanti, ma, se possibile, la vita cercavamo di riportarla a casa. Loro avevano i gagliardetti neri con i teschi e i pugnali, come nel ‘22, noi la nozione di ‘domani’. Il nostro presente era per il futuro di tutti perché il futuro di tutti era il nostro futuro. Per loro la paura era vigliaccheria, per noi rispetto della vita.
Ho imparato in guerra che cosa vuol dire condursi, ho condotto la mia paura fuori di me e l’ho versata sulle teste dei miei nemici, non è il loro eroismo, questo, è imparare la forza umana della nostra debolezza. Quando quassù venivano i nuovi, imparavano anche loro, in fretta, come ho fatto io. Che cos’è la paura e come la si riconduce alla vita, al domani che è vita. Allora le loro facce si facevano più dolenti e decise ed era come assistere allo schiudersi di un uovo, ci vuole tempo e pazienza per guardare un uovo che si schiude, avete mai tenuto sui vostri palmi un nido?