Miklós Hubay, il grande drammaturgo ungherese amico dell’Italia e degli Italiani, pregi e difetti inclusi, che ben conosceva apprezzando i primi e criticando in modo sommesso ma sempre con stile ed eleganza i secondi, ci ha lasciato l’8 maggio scorso. Per me personalmente è stato e rimarrà un amico e oltre al dispiacere per la perdita ho un solo rammarico: quello di non essere riuscito a farlo conoscere di più in Italia. Le sue opere sono patrimonio non solo dell’Ungheria ma dell’intera Europa. Miklós Hubay ha continuato a lavorare fino alla ultime ore prima della morte scrivendo saggi e limando l’ultimo dramma, nel quale ritorna su uno dei suoi temi preferiti: le minoranze a rischio. Il dramma, intitolato «Pápavárok» (lett. “Quelli che aspettano il papa”), vuole rappresentare l’amarezza e la delusione dei cattolici Csángó, un piccolo gruppo etnico magiaro di Romania, rimasti vanamente in attesa di una visita del papa Giovanni Paolo II mai effettuata: nella Romania ortodossa non sarebbe stata ritenuta “politicamente opportuna”. Ormai praticamente cieco dettava i suoi pensieri ad un aiutante che li trascriveva. Questa l’immagine che conservo di lui e l’altra: quella della sua gran voglia di vivere, di partecipare agli eventi culturali, alle prime teatrali, di sedersi nel suo ristorante necessariamente preferito perché vicino a casa, dove poteva recarsi senza essere aiutato e dove riceveva i suoi amici. E quando gli ospiti erano, come me, italiani non mancava mai di esprimere loro tutto il suo amore per l’Italia, un amore nato tanti e tanti anni prima, quando non ancora trentenne il suo fascino - Miklós Hubay era un uomo affascinante anche in tarda età - aveva colpito anche la sensibilità delle donne italiane da lui amate, riamato. Un amore che si rispecchia pienamente in una delle sue ultime dichiarazioni d’amore per l’Italia “Si può vivere senza l’Italia ma non ne vale la pena” e che lo portava ad indicare l’Italia come suo paese di adozione, il Paese che per lui ha sempre significato “l’arte” e che gli ha dato rifugio, accoglienza e soddisfazioni. E tra i luoghi d’Italia da lui preferiti, oltre Firenze, dove insegnò sedici anni fra gli anni ‘70 e ‘80, certamente si annovera il Friuli, che il drammaturgo ungherese menzionava sempre con affetto e dove ha soggiornato molte volte per lavoro e per diletto. Non a caso l’ultimo suo dramma pubblicato in Italia dal titolo quasi profetico «The rest is silence» può essere definito un omaggio alla lingua friulana e al Friuli. Nonostante il titolo inglese che riprende la notissima battuta finale dell’Amleto “the rest is silence”, il dramma, pubblicato nel 2008 per i tipi della Rubbettino, un editore meritoriamente vocato ai rapporti culturali italo-magiari, è in lingua italiana, ma ha una genesi curiosa e avventurosa che ne rafforza il legame con il Friuli sia dal punto di vista della sua scrittura sia del contenuto essendo nato originariamente in lingua friulana, ancor prima che in lingua ungherese, con il titolo «Infin il cidinôr» ed avendo per tema la scomparsa di una lingua, che Hubay identificava per l’appunto nel friulano. Difatti il giornalista Federico Rossi ne aveva già tradotto in friulano il testo vergato su dei fogli volanti da Hubay un po’ in italiano e un po’ in ungherese. La traduzione, si potrebbe dire la “riscrittura a quattro mani” del dramma, venne condotta “all’impronta e in compresenza” del drammaturgo magiaro mentre questi ricostruiva a mente un proprio manoscritto ispirato ai popoli in via di estinzione dell’Amazzonia, andato sfortunatamente perduto durante un viaggio in Brasile. Il dramma fu per altro messo in scena e interpretato da Massimo Somaglino nel 2000 durante la rassegna “Avostanis” di Villaccia di Lestizza. «Infin il cidinôr», divenuto poi in italiano «The rest is silence», narra la tragedia dell’ultima donna di un popolo che con lei si estinguerà rimasta la sola a parlare una lingua destinata anch’essa a scomparire. Una difesa appassionata delle “cosiddette” lingue minori cancellate dalla faccia della terra ma anche dalle nostre università. Solo qualche anno dopo, il dramma “friulano” è uscito finalmente anche in lingua ungherese con il titolo «Elnémulás» (letteralmente “Ammutolire”) e messo in scena sui palcoscenici d’Ungheria.
Miklós Hubay nel teatro come nella vita è stato e ha dimostrato sempre di essere un vero campione delle relazioni umane. E posso dire che non si poteva conoscere ed apprezzare completamente lo scrittore Hubay senza conoscerne il lato umano e la nobiltà d’animo. Allo stesso tempo la coerenza e la discrezione che gli erano proprie non impedivano che l’attento e profondo indagatore della psiche umana che era l’uomo Hubay si trasferisse proficuamente nel drammaturgo Hubay: così in gran parte delle sue numerose opere teatrali è l’indagine interiore, lo scavo psicologico dei personaggi a prevalere sull’evidenza dei fatti e della realtà. Nei drammi di Miklós Hubay, anzi, la storia e la realtà vengono avvicinate attraverso il filtro della ricerca nella psiche dei personaggi. In alcuni suoi drammi, come in «Freud ultimo sogno» (Garzanti, 1991), addirittura l’indagine psicologica viene condotta fino ad individuare quella che lo stesso autore definiva una “rimozione inconscia”, aggiungerei collettiva, dei drammi e degli orrori del mondo d’oggi.
Miklós Hubay si è dovuto rimboccare le maniche più di una volta nella sua vita. Lo fece dopo il crollo del comunismo all’Est e la disillusione seguita alla speranza, andata disattesa, che l’Europa dell’ex blocco sovietico aveva riposto nell’aiuto economico dell’Europa occidentale. Ma soprattutto lo aveva fatto in passato dopo i tragici e gloriosi avvenimenti ungheresi dell’ottobre 1956: a quella rivoluzione Hubay, al pari di altri scrittori e intellettuali ungheresi, partecipa ottenendone in cambio, dopo che i carri armati sovietici l’ebbero soffocata nel sangue, la perdita della cattedra all’Accademia di Arte drammatica di Budapest, il posto di consigliere letterario presso il Teatro Nazionale e la possibilità di mettere in scena le sue opere teatrali. Miklós Hubay pagava così il prezzo della propria coerenza antitotalitaria. Una coerenza che mostra di lì a poco, quando nel 1957, in piena restaurazione kádáriana, giocando da sofisticato intellettuale qual era sull’equipollenza totalitaria di fascismo e comunismo, pubblica una stupenda quanto “pericolosa” prefazione all’opera poetica di un ingiustamente dimenticato grande poeta ungherese antifascista, Pál Gulyás: a quei tempi un vero e proprio atto di coraggio.
Non è facile in poche righe approfondire tutti gli aspetti e i temi della drammaturgia di Miklós Hubay. Si va dalla denunzia delle mostruosità del fascismo alla rappresentazione dell’incapacità della borghesia ungherese di generare eroi che ritroviamo nei suoi primi drammi, dalle nostalgie sentimentali dello stesso Hubay disegnate con commossa autoironia nella figura del vegliardo innamorato di «Solo loro conoscono l’amore», commedia che ebbi la fortuna di vedere a Budapest nel 1998 nella sontuosa interpretazione di Imre Sinkovits e Klári Tolnay, due grandi “veterani” della scena ungherese, in occasione degli ottant’anni del suo autore, all’eroismo attivo e produttivo di un altro anziano, il protagonista di «Silenzio dietro la porta», contrapposto all’indifferenza e all’indolenza dei giovani, dall’analisi delle manifestazioni attraverso cui i tiranni fanno valere la propria crudeltà nel dramma «Nerone è morto?», una delle sue opere ispirate al teatro classico antico al crollo psichico del grande ballerino russo Vaslav Nijnsky determinato dall’arrendevolezza e dall’irrisolutezza del presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che, incapace di difendere i suoi stessi princìpi sull’uguaglianza dei diritti di tutte le nazioni europee (esplicito il riferimento ai tre milioni e mezzo di ungheresi sparpagliati fra Romania, Cecoslovacchia, Austria e Jugoslavia nel 1920), verrà a sua volta travolto dal tormento e dalla schizofrenia, nella tragedia «Dov’è l’Anima della Rosa?», messa in scena anche in Italia, al Mittelfest di Cividale del Friuli, dal Teatro Stabile di Debrecen, tragedia che riporta con forza sul proscenio quello che è un po’ il leit-motiv dell’opera teatrale di Hubay: il tormentato XX secolo vissuto e interpretato dal grande drammaturgo ungherese nella premonizione di una catastrofe sempre immanente.
Miklós Hubay era anche un saggista fine e sensibile. Indirizzava il suo interesse in primo luogo verso la teoria, la critica e la storia del teatro drammatico ma non disdegnava di occuparsi anche di critica letteraria. Dotato di una memoria straordinaria, sapeva citare - e lo posso testimoniare - brani di tutte le opere letterarie ungheresi. Diversi volumi raccolgono questa sua vasta attività di saggista che, portata avanti parallelamente alla sua attività primaria di drammaturgo, la completa degnamente.
Quando Miklós Hubay nasceva nel 1918 l’impero austro-ungarico cessava di esistere e l’Ungheria in seguito alla prima guerra mondiale veniva privata di due terzi del suo territorio, ivi compresa la città allora magiarissima di Nagyvárad (l’odierna Oradea, in romeno) che ha dato i natali a Hubay. Un’epoca si chiudeva: l’epoca scintillante che nel bene e nel male aveva visto in Ungheria il dominio dell’aristocrazia e alla quale sarebbero succeduti regimi ancor più conservatori della Monarchia austro-ungarica, come quello di Horthy, o addirittura totalitari, come quello comunista dell’era stalinista. Miklós Hubay non aveva sangue blu nelle vene, ma se qualcuno mi chiedesse di descrivergli un vero aristocratico ungherese, e non solo ungherese, non avrei dubbi: Miklós Hubay, signore del teatro e gran maestro dell’estetica teatrale, era un gentiluomo di fuori, nei modi e nel comportamento, ma soprattutto era un vero aristocratico di dentro, nell’intelletto e nello spirito.