Vi è una sorta di destino nelle scelte della coscienza. Crediamo di vivere secondo i nostri disegni, ai quali attribuiamo tanta volontà di potenza, e invece seguiamo un riflesso pavloviano. Ogniuno di noi ha una sua stella polare e ad essa tende il suo magnete. Non lo sa, ha detto una volta Karl Mark, non lo sa ma lo fa.
Ma questa appartenenza al destino non è fatalismo, niente è stato scritto e si può restare seduti immobili a Udine, capitale della Patria del Friuli, sbirciando con una macchina fotografica la realtà. Probabilmente il talento sarebbe lo stesso e lo stesso l’istinto, ma non sarebbe la stessa cosa e, sicuramente, pur con lo stesso nome e cognome, la stessa persona. Come in un racconto di Borges, l’andare e il non andare in un luogo ti predispone al luogo e il luogo non è un punto di passaggio nel tuo errare, ma un cerchio magico nel cui centro, invisibili, ti colpiscono i raggi dell’appartenenza. Così ogni punto del tuo passaggio, del tuo viaggio non è sempre uguale: se sei Bogart sotto un nome fittizzio inventato da uno scrittore non eccelso e condotto lì da un regista non eccelso, il tuo luogo è Casablanca. A Tangeri non sarebbe stata la stessa cosa. Come ha detto il vecchio Hemingway, ci sono dei luoghi buoni per descrivere ed altri no. Così puoi andare nella Cina del Nord, affrontando i venti freddi che spirano dalla Mongolia, stipato su di un autobus negato ai turisti, fare delle cose splendide e sicuramente importanti per il tuo, come si dice seriosamente, curriculum, ma intendere che non è il tuo luogo, e puoi andare fra i curdi, passando fra le maglie dell’esercito turco e vivere e fotografare guerriglieri e bambini e intendere che non è il tuo luogo. Forse certi luoghi sono certi caffè di Parigi, Vienna, Mostar, Sarajevo, Praga. Ma forse Praga è un’altra cosa, è un altro cerchio magico, di cui hai coscienza. Forse sei più vicino al buon soldato Svejk che non a Gregor Samsa, commesso viaggiatore, a Hrabal o a Holan, dove è la notte del fiume e della birra che trascina l’alba sotto il ponte Carlo ad essere tua. E insomma, viaggiando con aerei carrette, chiedendoti se potrai mettere i piedi a terra, alla fine, e con corriere, e dormendo stringendoti alle tue preziose macchine fotografiche e a quel tuo misterioso libricino gonfio d’indirizzi, ognuno dei quali cela un volto, una stanza dove dormire ed un luogo dove mangiare quel che mangia la gente del posto, infine scopri che quel luogo è l’America. Ma non l’America del cui nome si sono arrogantemente impossessati gli janqui, ma quella meridionale e quella centrale.
Nemmeno Cuba, nonostante una disperata volontà ideologica d’appartenenza (e questa la dice lunga sulla vocazione del destino), ma il Messico, verso il quale ti sei sentito attratto tre volte, nel ‘95 e nel ‘97 e nel 2006, il Messico pare essere il cerchio dentro il quale, legato da un invisibile filo al suo centro indigeno e contadino (quindi non Città del Messico, o almeno non ancora) ruoti come un torero intorno al toro, il Messico dal quale fai distillare poche decine di fotografie dalle centinaia scattate. Queste fotografie, d’alta spirazione e resa estetica (ma è il punto in cui il contenuto trasuda dentro la forma e la forma blocca il contenuto, trasformando l’estetica in forza etica) possono certo essere viste con ammirazione dagli intenditori, apprezzate per la cadenza rembrandtiana dei grigi che filtrano dentro i grigi e i grigi dentro altri grigi e questi nella pittura nigra dell’ombra che un muro secco o un albero, improvvisamente, dentro la forza rivoluzionaria della luce, fanno germinare. Li sta, fiero il vecchio comandante della rivoluzione di Zapata, Emeterio Pantaleon di 103 anni, circondato da un muro di fotografie di compagni morti e non dimenticati, e sta, cupo, arrogante nel suo sorriso, evidenziato dalla ottusa bocca della pistola che volge verso di noi il suo senso del potere e di minaccia dal primo piano del tavolo in cui è negligentemente e non casualmente posata. Il terrateniente, l’uomo del potere. Lì sta la donna che indica col machete un punto fuori dal campo una bambina. Certo, nella realtà, indica un posto verso il quale bisogna andare per le necessità quotidiane. Ma la domanda del lettore è, come dovrebbe essere: solo questo? Tutto qui?
E i temi s’intrecciano in modo sofisticatamente elementare, terra, acqua, fuoco e dentro di sé, come in capitoli fermi. Non si tratta, ce ne accorgiamo subito, di appunti di viaggio. Qui si ha la netta sensazione che il fotografo si sia fermato pesantemente, senza svolazzi, senza fascinosità, senza hispanidad, senza colore locale. E’ lo stesso passo di Tissè e di Ejzenstein e di Fernandez e Figueroa. Indios della selva dello stato del Chiapas o del Guerrero, ragazza Raramuri colta nella vertigine del salto in un gioco che evidenzia la caratteristica di “attimo fuggente” della fotografia (in tanta monumentalità è bene ricordarsi di cogliere il volo di farfalla innocente. Anche questa è fotografia, anche se non è tutta qui): machete, machete, machete, uomini e donne sporchi di terra, oggetti della vita, felicità di correre lungo l’acqua d’argento del guado assassino di Aguasblancas, infelicità del peso di una trave, eloquenza del mais, che fino ad un attimo prima riposava, cotto sulla piastra per sfamare bocche. Un popolo, una speranza in tanta infelicità ed oppressione.