Il Paradiso è la cantica meno letta della Divina Commedia. I santi ci annoiano. «Mi sentirei di girare un film sull’inferno dantesco, forse sul purgatorio, certamente non sul paradiso» Alessandro Blasetti conferma che la perfezione è poco sceneggiabile.
Quando fu scelto un posto per il paradiso, col minore impatto ambientale, si decise di piazzarlo in cielo. In terra ingombrava, in mare avrebbe guastato il premio a chi in vita soffrì il maldimare. La ricompensa eterna sazia presto. Il Paradiso, maiuscolo e ripetitivo, è un ergastolo di beatitudini. L’inconveniente maggiore è che sta confinato di là del tempo regolamentare, nei supplementari. Più pratico è riportarlo in terra, dentro l’esistenza.
In antico ebraico paradiso è «pardès», un campo recintato con alberi da frutto. Stava al suolo, era fornito di plurale «pardesìm», ce n’erano diversi. Non era contemplazione, ma opera di lavoro, non riposo ma sudore, custodia contro le avversità. Vedo pardès ovunque l’emergenza chiami a tentare una risposta, mettersi in un’opera difficile, fosse pure disperata.
Vilna, Lituania, settembre 1943, ghetto ebraico nei giorni della soluzione finale: un grappolo di giovani resiste con qualche arma da fuoco racimolata in giro. Mancano i proiettili. C’è nel ghetto una casa editrice con tipografia, la «Rom» che stampa i grandiosi volumi del Talmud. I giovani vanno di notte a rubare le barre di piombo per fonderle e fabbricare munizioni. Le sante lettere ebraiche diventano proiettili. Scrive lì e in quel momento il giovane poeta Avram Sutzkever: «L’ebraico valore serbato in parole / va a irrompere nel mondo, arma da fuoco». Nel ghetto di Vilna i superstiti dell’annientamento fabbricarono intorno a loro un recinto, una difesa, un pardès. Prima di essere inceneriti nel vernichtungslager di Sobibor piantarono un pardès con i loro corpi. Pardès fu il tempo che salvarono, un tizzone d’incendio. Furono vinti, certo, il pardès non sbandiera vittorie. È un cerchio di fuoco, un campo di zingari che all’alba seguente lascia cenere spenta.
Lo ritrovo in terra ovunque la miseria, la guerra, spingano a una resistenza, a un patto per unire le forze. Vedo pardesìm nei passaggi di migratori verso le nostre coste, nei villaggi che ricostruiscono le case dopo il maremoto dell’Oceano Indiano. Non vedo pardès a New Orleans dove il sindaco vuole completare l’opera dell’uragano forzando i cittadini a spopolare.
Pardès è una fabbrica occupata, una barricata, una cooperativa di senza terra. È stato di eccezione e di emergenza, poi si dissolve e si riforma altrove. L’umanità si regge sul pardès.
Erri De Luca