Tre anni fa li avevano cacciati dai loro villaggi, dopo avergli bruciato le case, rubato il bestiame e massacrato 70 contadini inermi; poi i soldati dell’esercito colombiano li avevano caricati su una flottiglia di zattere, chiatte e barche e sbarcati a Turbo.
È una delle tante storie di desplasadoz (intraducibile con un solo aggettivo, la definizione riguarda le persone che, sradicate dai loro paesi e deportate, sono costrette a vivere in esilio coatto) che l’anno scorso in Colombia, secondo un’organizzazione per i diritti umani, avrebbe raggiunto la bella cifra di 288.127, un primato assoluto tra i Paesi del Su America.
Il mese scorso, grazie alla magnanimità del governo di Bogotà, che aveva acconsentito ad un loro graduale rientro, una sessantina dei 3.800 desplasadoz di Cuenca Cacarica sono tornati nella selva dove un tempo sorgevano i loro pueblos: siamo andati assieme a loro per fiumi e canali in un viaggio che pareva non terminasse mai. È stata una gran fatica, ma anche una gran festa.
Turbo è una cittadina affacciata sul Golfo di Uraba, dove confluiscono le acque gelide dell’Atalntico. I deportati di Cuenca Cacarica vivono qui dal febbraio del ‘97: sono stati sistemati in specie di case accampamento che chiamano alberghi, le famiglie (molto spesso numerose) pigiate in piccole sudicie stanze e baracche. La cucina è in comune, nel cortile, sotto la tettoia. Benché l’organizzazione umanitaria Justicia y Paz si dia molto da fare, il cibo è scarso, i bambini hanno fame.
Leggi:
Viaggio con i desplazados del Chocó di Ettore Mo